mercoledì 29 settembre 2010

Affinità e divergenze tra i contadini di Grassano e me alla vigilia del voto di fiducia alla camera

" - Eravamo sempre otto o dieci: c'era un dottore, un farmacista, dei commercianti, un cameriere d'albergo e qualche artigiano. Tutti del nostro paese, ci si conosceva fin da bambini. La vita è triste, tra quei grattacieli, con tutte quelle straordinarie comodità, e gli ascensori, le porte girevoli, la metropolitana, e sempre case e palazzi e strade, e mai un po' di terra. Viene la malinconia. La domenica mattina si saliva in treno, ma bisognava fare dei chilometri, per trovare la campagna! Quando eravamo arrivati in qualche posto solitario, diventavamo tutti allegri come ci si fosse tolto un peso di dosso. E allora, sotto un albero, tutti insieme, ci si calava i pantaloni. Che delizia! Si sentiva l'aria fresca, la natura. Non come in quei gabinetti americani, lucidi e tutti eguali. Ci pareva di essere ragazzi, d'essere tornati a Grassano, si era felici, si rideva, si sentiva l'aria della Patria. E, quando avevamo finito, gridavamo tutti insieme: "Viva l'Italia!". Ci veniva proprio dal cuore"

Carlo Levi, "Cristo si è fermato a Eboli"

(Sto recuperando in questi giorni questo classico finora da me colpevolmente ignorato. E' la storia di un antifascista che viene spedito a fare un focus group lungo tre anni in un paesino della basilicata. O forse sono io che sovrainterpreto causa troppo lavoro negli ultimi giorni. Comunque: è molto, molto bello. E i contadini di Grassano, in questo passo, in questi giorni, mi rappresentano abbastanza)

(Ricordo sempre con affetto il babbo che su un Firenze-Pisa in tragico ritardo educò il figlio con la frase: "vedi? qui ci hanno scritto il libro: "CRISTO SI E' FERMATO A EMPOLI")

martedì 28 settembre 2010

incubo del giorno / Minzolini Edition

Sognavo che Minzolini veniva rimosso dal suo incarico e al suo posto veniva reinstallato Gianni Riotta, che per pubblicizzare il suo ritorno faceva girare uno spot in cui altri possibili candidati alla direzione del TG1 (Mentana, Maurizio Costanzo, Alberto Castagna e altri) fingevano di condurre il TG vestiti con la parte superiore di un impeccabile doppiopetto, e sotto in mutande e calzini con le giarrettiere.
Il ritorno di Gianni Riotta mi rallegrava alquanto, soprattutto per le scomposte reazioni di Minzolini.
Poi mi prendeva il panico: "Come si può essere così contenti per il ritorno di Riotta????"

lunedì 27 settembre 2010

Neanche lo stand della Salsiccia Arrosto - Piccole cronache dalla Festa Della Libertà di Milano /1

Il posto scelto per la festa della libertà, ovvero il Castello Sforzesco di Milano, rappresenta una scelta che sarebbe demenziale per la festa annuale, nella città-roccaforte del proprio potere, per qualsiasi partito di massa occidentale. Gli spazi accolgono alcune centinaia di persone, al limite (di fronte al palco principale, nello spazio dedicato a "Concerti ed eventi") poche migliaia.

La scelta però non è demenziale per il Partito delle Libertà, unico partito di massa senza massa.

Meglio: la massa c'è, ma è altrove. Dove si possa trovare la massa non è difficile da immaginare. La prima cosa che ho pensato passeggiando per gli spazi semi-deserti della Festa, poco fa, tra l'una e mezza e le due, è stata che la ripresa di qualsiasi evento, anche il meno interessante, risulterà terribilmente affollata, anche solo per la presenza di staff, coscritti, militanti (facendo atto di fede ch'essi esistano), passanti, curiosi, infiltrati e soprattutto turisti.
Sarà una festa molto riuscita, per i militanti che la vivranno negli articoli del TG1.

Gli spazi sono, tra l'una e le due, ovviamente deserti: la tentazione di ironizzare sulla riuscita della festa è forte, ma devo sempre ricordarmi di star visitando non l'evento, per ora, ma il suo ectoplasma. In fondo, non sono mai stato ad una festa dell'Unità nel primo pomeriggio, anche se immagino comunque un po' più di casino.
In giro ci sono: molti poliziotti e carabinieri, turisti e pochissimi curiosi.
Lo spiazzo con il palco principale è fiancheggiato da un gazebo singolo, sulla sinistra: vuoto, abbandonato, contiene solo alcuni sacchi di plastica ripieni di t-shirt bianche con la cubitale scritta in blu "L'amore vince sempre sull'amore e sull'odio". Le maglie erano ripiegate e non ho potuto controllare l'eventuale uso di maiuscole, ma mi riprometto di verificare.
Non so come si faccia a ottenere uno di questi reperti, cercherò di scoprirlo nella prossima visita.

A destra del palco c'è un lungo tendone colonizzato dal "movimento", ovvero dai Promotori della Libertà, il sindacato cattolico, l'associazione Giovane Italia (sic).
Il tendone dedicato al movimento è preceduto da uno spazio espositivo del consorzio Grana Padano: per recuperare le energie, immagino.
Nel tendone dei Promotori della Libertà (o DELLE Libertà?) vendono anche libri. Sono coperti da un panno, tranne in un angolo.
I libri rimasti scoperti sono:
1) H. Arendt "La banalità del male"
2) G. Pisano "Gli ultimi cinque secondi di Mussolini"
3) B. Craveri "La civiltà della conversazione"
4) Autore non visibile "La cacciata dei musulmani dall'Europa"
Mi riservo di sapere di più sui libri in esposizione per avanzare un'interpretazione.

Più avanti c'è l'area "Dibattiti Mostra Bar TV", senza soluzione di continuità: il nome dell'area mi appare ominoso e rivelatore.
All'interno dell'area c'è un altro spazio conferenze, più ridotto e, nel corridoio a destra, una serie parallela di pannelli con foto ingrandite e sgranate che raccontano i successi internazionali del caro premier: i pannelli convergono sul pannello posto in fondo allo spazio espositivo, in cui avviene al fine l'ostensione et rivelazione del volto santo_ volto sereno, fondo azzurro photoshoppato, e frase sull'amore della libertà provato prima come imprenditore e poi come politico. Altra frase rivelatrice di una concezione della libertà piuttosto peculiare e profit -oriented, semmai ce ne fosse bisogno.

(Continua)

il decurionato e il patriziato alpino

Stavo cercando, perché si svolge praticamente a fianco del luogo in cui lavoro, e perché intendo andarci per svolgere una rilevazione antropologica dei tipi umani ivi presenti, un programma della Festa del PDL a Milano (dal 25 settembre al 03 ottobre, per chi fosse interessato).
L'unico sito che fornisce il programma  della manifestazione (oltretutto scansito dopo essere stato sottolineato a segnalare eventi e partecipanti di dubbio interesse) è il blog di Destra per Milano (no, non metto il link, mi rifiuto), blog che ovviamente non avevo mai visitato.
E sbagliavo, a non farlo, perché è una fonte di irresistibili chicche, come quella che vi presento qui di seguito, postata appena cinque giorni fa ma fragrante di medioevo e di una divisione tra nobili e popolo ingiustamente caduta in disuso.

Lista delle cose che mi fanno ridere di più:

  • Il nome di Sua Eminenza il Marchese Dottor Marco Lupis Macedonio Palermo dei Principi di Santa Margherita
  • L'importanza della piccola nobiltà Walser, impersonata dal nuovo Membro Corrispondente (e chi non vorrebbe un Membro Corrispondente che fosse anche nobile?)
  • Il tema della corrispondenza, soprattutto nella sottoparte dedicata al patriziato alpino.

Ho deciso che di tanto in tanto terrò d'occhio questo blog, c'è da divertirsi.

domenica 26 settembre 2010

Recuperi: Howe Gelb - Confluence

Di solito chi fa rock fa uno, due, tre, magari quattro dischi buoni all'inizio e poi si perde, con occasionali riprese (sempre parziali, però)
Oppure (pochi casi) si reinventa ogni dieci anni e riparte con una nuova serie di capolavori (pochissimi: diciamo giusto Tom Waits e un paio d'altri)

Howe Gelb più che scrivere un unico capolavoro  ci si è scontrato dopo vent'anni che suonava e incideva dischi con i Giant Sand. Il disco dei Giant Sand coevo a questo "Confluence" (2001) si chiama "Chore of Enchantement" ed è il più bello della discografia sterminata e caotica dei vermoni del deserto, segno che in quell'anno a Howe Gelb le cose venivano bene in modo naturale. Il vero capolavoro però non è il disco dei Giant Sand ma questo suo solista, in cui predomina un'estetica dell'errore: l'occasionale stonatura, le plettrate e gli accordi imprecisi, le canzoni che si perdono un po' sono tutte caratteristiche che migliorano blues sghembi e rock scarnificati ed essenziali (3 sisters, Saint Conformity, Pontiac slipstream, ovvero le prime tre canzoni del disco, meravigliose tutte e tre); il disco ha anche spazio per  l'occasionale ballata surreale (Blue Marble Girl) e per ragazze fuori dal tour bus che canticchiano la canzone successiva in scaletta (Vex - Vex Tucson).
Da questo disco in poi a Howe Gelb fanno registrare qualsiasi cosa gli venga in mente, e lui ne sta perfino abusando: ma nessuna gli è venuta bella come questa.
Qui gli errori sono voluti, accolti e mai cancellati, assaporati e seguiti, gli si da lo spazio di approfondire, complicare e contraddire le linee melodiche delle canzoni e il loro ritmo; tutte le canzoni finiscono per avere difetti evidenti, e tutte insieme sono quasi perfette.

(Il video: non so come ciò sia possibile ma su internet non esiste un culto relativo a questo disco. Ciò mi sconvolge. Su Youtube c'è solo questa versione, completamente diversa da quella sul disco, di Saint Conformity: è bella comunque)

venerdì 24 settembre 2010

The Horror! The Horror!

Ieri dovevo condurre un focus, a Milano.
All'entrata dello stabile in cui si sarebbe svolto il tutto, delle ragazze fermano me e la mia collega.
Loro: "Siete qui per l'intervista?"
Noi: "Sì"
Loro: "Siete infermieri?"
(primo momento di incertezza: il nostro focus group era su tutt'altro)
Noi: "Ehm, no"
Loro: "Però siete voi quelli della VESCICA MENTALE, vero?"

Noi abbiamo negato, ma è da allora che l'immagine mi perseguita.

martedì 21 settembre 2010

Hello4

(Oggi mi hanno hackerato l'account google: io intanto ho cambiato password e cazzi vari, ma intanto questa mail è stata mandata a tutto il mio indirizzario. Scusate. Però, già che nell'indirizzario c'era anche l'indirizzo del blog, l'ho anche pubblicata qui in automatico. Non mi va di cancellarla: mi fa abbastanza ridere)


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lunedì 20 settembre 2010

Paolo Zanotti - Bambini Bonsai

Paolo Zanotti - Bambini bonsai
Ponte alle Grazie
17.00 €

Un’introduzione personale, come fanno gli storici della perfida Albione.
Facevo il secondo anno di università, avevo i capelli ed erano ricci, e studiavo spesso alla biblioteca della Scuola Normale.
Un giorno una tipa con vari metri di gambe e tutto il resto in indovinata proporzione mi abbordò con forza.
Subodorai subito l’inganno, ovviamente.  
Voleva, in effetti, non il mio corpo ma i miei appunti di filosofia teoretica, che avevo qualche giorno prima passato con grazia rinascimentale (la tapina, invece, da brava normalista qual’era aveva rifiutato un ventotto).
Le feci dono dei miei appunti e le dissi anche che, se voleva, colle nostre copie del libro del Marcucci su Meyerson potevamo anche accenderci un gioioso fuocherello, non appena passato l’esame.
Quelle metaforiche fiamme diedero il là ad una brevissima ed estiva amicizia. Tra le poche cose che condividemmo in quei pochi mesi (tra cui non il letto, miei amati lettori, debbo disilludervi) ci fu, e non so se l’autore ne sarebbe contento, il manoscritto del primo romanzo di Paolo Zanotti. La mia nuova amica mi disse che lei e pochi altri ne stavano correggendo le bozze, e voleva che lo leggessi, e che magari lo commentassi.
Il romanzo non era male, e sebbene siano passati diversi anni ne ricordo alcuni  aspetti con precisione. Mi ricordo che rimasi insoddisfatto della fine, come se il romanzo finisse trenta pagine prima o trenta pagine dopo il dovuto. Comunque, per quanto ne so, quel romanzo non è mai stato pubblicato.
Anni dopo (tre o quattro almeno, non ricordo) un altro nuovo amico insistette per farmi leggere un primo capitolo del nuovo libro dello Zanotti, senza nulla sapere dei miei trascorsi (forse anche di questo lo Zanotti non sarebbe contento: ma deve scegliersi recensori o amici più discreti, o meno generosi). Quel capitolo lì non lo lessi: persi il file, e avevo sviluppato una coscienza in quegli anni (poi l’ho ripersa): a leggere un work in progress di uno sconosciuto, e a sua insaputa, mi pareva di fargli violenza, e non me ne curai più.
Lo Zanotti poi l’ho conosciuto ad un aperitivo pisano, ma è stata giusto una sera, e non ho avuto cuore di dirgli che l’avevo già letto, otto anni prima, o qualcosa del genere.

Il libro:
“Bambini bonsai” è il primo romanzo di Paolo Zanotti, il primo che si possa leggere senza fare affidamento ai suoi inaffidabili amici, almeno.
La storia è raccontata dal piccolo Pepe, bambino che cresce, in un futuro non eccessivamente lontano, nell’agglomerato di profughi che si è stabilito nel cimitero monumentale di Staglieno, a Genova. Nel mondo di Pepe tutte le specie animali si sono estinte e di loro non rimangono che i documentari, il caldo e il sole non danno tregua, le isole sono state sommerse, il mondo è un via vai di rifugiati che cerca un posto dove vivere nei pochi pezzi di costa ancora abitabili.
Pepe si muove tra le statue del cimitero e i fantasmi degli animali estinti, tra la baracca in perenne costruzione che condivide col padre semi meccanico e la madre bellissima e sfuggente e la torre di zia Incarnazione, l’ultima che ha visto i gabbiani dal vivo. Poi arriva la pioggia, o meglio il diluvio, e Pepe, come tutti i bambini di questo nuovo mondo, abbandona il mondo degli adulti e parte, insieme alla piccola Primavera, per un viaggio che è il rito di passaggio dei nuovi bambini. Durante questo viaggio conoscerà - tra gli altri - Sofia, la bambina a cui si rivolge nel ricordare e spiegare che costituisce il romanzo.
La prima parte del romanzo illude - ma basta rileggerla, una volta finito il romanzo, per rendersi conto dell’abbaglio che si è preso - che possa avere uno sviluppo leggero come di un romanzo riuscito di Benni, soprattutto per i suoi personaggi (e, sia inteso, questo vorrebbe essere un complimento). E invece è un romanzo cupissimo, e riuscitissimo proprio nella disperazione di alcune sue scene (ogni volta che i bambini arrivano al mare), nei richiami ai bambini del  Signore delle Mosche, nell’inseguimento  tra Pepe e Petronella, una scena che a me ricorda (ma questo probabilmente ce lo vedo solo io) l’inseguimento di Tancredi e Angelica nel Gattopardo e che rimesso in scena da un bambino confuso e da una bimba ricca viziata e semi ubriaca risulta sensuale e inquietante allo stesso tempo.
Il libro è un’elegia all’infazia perduta, a quello a cui si rinuncia crescendo, o almeno questa è la voce che ha Pepe, che però decide di crescere. E benché il libro finisca sulla sua scena più cupa, da qualche parte, nelle pagine precedenti, una qualche speranza si è vista.

(Poi: il libro è scritto molto bene: Zanotti ha un periodare tondo e complesso, ma io avrei voluto più descrizioni, e che si soffermasse di più su alcune scene, e che dei personaggi si arrivasse a sapere di più. Il libro pecca per brevità, e non mi capita spesso di dirlo. Spero nel prossimo romanzo a stampa, quindi, ma intanto caldeggio questo)

domenica 19 settembre 2010

sabato 18 settembre 2010

Steven Pinker - The Blank Slate - The Modern Denial of Human Nature

STEVEN PINKER
The Blank Slate - The Modern Denial of Human Nature
Penguin Books, 509 pp. £10.99

(ed. italiana “Tabula Rasa - Perché non è vero che gli uomini nascono tutti uguali”, Mondadori, 622 pp., 12.00 euro)

“By unhandcuffing widely shared values from moribund factual dogmas, the rationale for those values can only become clearer” (p. 422)

(Steven Pinker è professore di psicologia ad Harvard, ed ha insegnato psicologia cognitiva al MIT fino al 2003. Prima di mettersi a pubblicare testi “divulgativi” ha pubblicato testi tecnici sulla natura del linguaggio e sull’apprendimento del linguaggio stesso da parte dei bambini)

The Blank Slate, pubblicato per la prima volta nel 2003, è tutto dedicato alla distruzione di tre “miti” filosofici non recenti, ma che nel ventesimo secolo hanno goduto di grande notorietà e utilizzo, e che Pinker considera accomunati (anche se il secondo in fondo non lo è) dal rifiuto dell’idea di “natura umana”, contenuta per Pinker nel nostro patrimonio genetico e modellata dalle forze dell’evoluzione e della selezione naturale.  I tre miti sono quelli della “tabula rasa” (la “blank slate” del titolo, ovvero dell’anti-innatismo assoluto, della costruzione sociale di tutte le competenze, i valori, i talenti, le predisposizioni), del “buon selvaggio” (della costruzione culturale di guerre, contrasti, conflitti, ingiustizie sociali, etc. a fronte di una “naturale bontà” e predisposizione al bene degli esseri umani) e del “fantasma nella macchina” (ovvero dell’anima, e della separazione della volontà e della personalità dal corpo).

Non mi sembravano, prima di leggere il libro, argomenti di grande impatto, e come questioni mi sembravano seppellite da tempo: ma Pinker la pensa diversamente (anche perché si muove in un milieu culturale, quello statunitense, in cui l’utilizzo di queste idee è più estremista, e l’arrivo a conclusioni palesemente cazzare è molto più frequente*) e si sofferma sul loro utilizzo non solo nelle scienze sociali e nell’antropologia (i due esempi più interessanti per me) ma anche nella biologia e nella linguistica, come assiomi: la bontà dei primitivi, la loro relativa “pacificità” in periodi di abbondanza dei beni primari, la natura esclusivamente sociale, sovrapersonale di fenomeni umani come le differenze di genere, il linguaggio, le organizzazioni  e dinamiche politiche (vedi l’assunto di Durkheim per cui le nature individuali non sono altro che materiale indifferenziato che sono i fattori sociali a modellare e trasformare), ma anche la convinzione che il carattere, le credenze, i desideri dei bambini siano del tutto plasmabili e indirizzabili agendo sulla loro educazione (che non ci siano, dunque, tendenze, o talenti o inclinazioni innati), ecc. ecc.

Il libro è un po’ troppo lungo (ma tutt’altro che complicato: tutto si può dire di Pinker tranne che non sia un grande divulgatore) per darne un’immagine compiuta in poche righe, ma basta dire che Pinker cerca di demolire questi tre miti facendo affidamento soprattutto alla teoria evoluzionistica e cercando di mostrare come una mente con un certo numero di innatismi sia una ovvia conseguenza dell’adattamento evolutivo che ha dato forma alla nostra specie.  Fare i conti con questi innatismi non può che fare del bene a tutta una serie di discussioni eminentemente politiche: dalle politiche sull’educazione a quelle sull’integrazione, dalle politiche contro la violenza sulle donne alla discussione sull’effetto della violenza nei media, dalla possibilità di riuscita di una qualsiasi rivoluzione di stampo comunista alla credenza in un mercato che sia in grado di produrre il meglio senza un intervento statale.
Il fine di Pinker in questo libro è infatti non tanto quello di dare il via a una discussione scientifica sull’innatismo o meno (è una questione che discute ma che in realtà considera chiusa, e in questo risulta anche molto convincente) ma quello di creare la possibilità di una discussione politica che tenga conto di questa natura per produrre il massimo grado di felicità e giustizia possibile, una discussione non rivolta ad un ideale essere umano ma a quello fattuale, che è definito da una natura umana solo lentissimamente modificabile (tra l’altro: secondo Pinker, la nostra morale è un sottoprodotto evolutivo che ci rende più in grado di sopravvivere in gruppo e quindi più evoluzionisticamente adatti, ma questo non vuol dire che non abbia valore: semplicemente, non l’ha creata Dio o chi per lui - ma è un’argomentazione dura da sostenere, e difficilissima da presentare, ed è forse anche l’unica in cui sono totalmente d’accordo con lui). (Lo scopo di PInker non risulta pienamente comprensibile se non si conoscono le polemiche  scoppiate negli USA negli ultimi trent’anni ogni volta che qualcuno ha provato a inserire le conoscenze sulla genetica e sulla biologia all’interno delle scienze sociali o dell’antropologia: polemiche che di solito hanno nell’epiteto “nazista” rivolto allo studioso di turno il loro momento più soft).

Non tutto va per il verso giusto: Pinker risulta molto convincente sull’importanza di arrivare ad accettare l’influenza della biologia evoluzionistica per quanto riguarda ogni aspetto della nostra vita, e non soltanto per il pollice opponibile o la stazione eretta, ma anche nelle sue discussioni sulla natura della violenza (il capitolo sullo stupro è uno dei più convincenti, ma è anche quello su cui sono sicuro avrà ricevuto più critiche), ma è decisamente più a disagio in altre occasioni: per esempio, quando si ritrova a parlare del razionalità o dell’ ”evolutionary fitness” del sistema della pena  all’interno delle società umane, o peggio ancora quando si imbarca (senza alcun motivo: è un discorso che Pinker dovrebbe considerare privo di senso, se fosse conseguente con le sue premesse) nel discorso sul libero arbitrio o in quello (su cui Pinker vorrebbe avere delle risposte definitive ma è evidente che non le ha) sull’effettiva importanza del contesto nella definizione della personalità degli individui (lui cerca di portare quest’influenza vicino allo zero, ma ammette che qualcosa gli sfugge)
Totalmente perso, poi, Pinker lo è quando passa a parlare (in un penultimo capitolo che poteva tagliare, accidenti, è stato come mangiare per ultimo un boccone andato a male) delle arti, in una specie di polemica contro il  post-moderno anche comprensibile nei contenuti ma condotta come farebbe una mia zia molto conservatrice e tradizionalista se solo mia zia insegnasse al MIT e fosse impallinata con la teoria darwiniana.

Nell’insieme però il libro è molto bello, dice una quantità di cose vere e/o interessanti sugli esseri umani e da una chiave interpretativa molto forte sul modo in cui sono fatti e pensano, si comportano, interagiscono fra loro e prendono decisioni collettive (ovvero: fanno politica). Anche se non tutto torna mi è sembrato il primo libro di filosofia vero che ho letto da anni a questa parte: perché si fa delle domande su come siamo fatti e come percepiamo/interagiamo col mondo e perché parte da questa visione per cercare di mettere in discussione i discorsi attuali sulla politica e cercare di immaginarne di nuovi. Si tratta di un’interpretazione che ha in sè un forte rischio di conservatorismo e immobilismo (in fondo una natura umana immutabile sarebbe facile da prendere come argomento a favore della difesa dello status quo), ma con cui bisogna fare i conti non solo perché poggia su due teorie fortissime e praticamente indiscutibili  (o una e mezza, se siete scettici o teo-con: ovvero l’evoluzione e la selezione naturale), ma anche perché in molti aspetti è più convincente e meno consolante  delle altre disponibili.

* E’ più o meno lo stesso tipo di tara, quella che va fatta alle argomentazioni e preoccupazioni di Pinker, che va fatta ogni volta che si prende un libro di Steiner o di Bloom in mano: da loro sia il decostruzionismo che i cultural studies sono arrivati a livelli di demenza difficilmente prevedibili, e per chi ci deve combattere nelle università è molto complicato non buttare via il bambino con l’acqua sporca (scusate: non mi andava di cercare un’espressione meno frusta).

venerdì 17 settembre 2010

giovedì 16 settembre 2010

(best picture so far)

thank you internet

(via catastrofe)

Ornella è Mario, ovvero: l'amore a Milano

Amore vuol dire anche disprezzo per gli apostrofi (cendo per cendo disprezzo)



























Ornella è Mario, per questo lo ama così tanto

Essendo Mario e Ornella la stessa persona, sono, è, saranno uniti X.S.
In realtà: è una palese disquisizione teologica sulla trinità.
D'altronde, se due si amono parecchio, l'estasi mistica è vicina.

(A Milano, vicino alla stazione della metro di Gioia)

mercoledì 15 settembre 2010

Philip Roth - Indignazione

Philip Roth - Indignazione
pp. 136
17,50 €

Arriva un momento in cui gli editor non riescono a dirti che forse non è il caso di pubblicarlo, quell’ultimo racconto lungo che hai scritto; quello che, impaginato bello largo, il tuo editore ha intenzione di pubblicare come tuo nuovo romanzo.
Ed è un peccato, perché potrebbero farti notare che lo sviluppo del protagonista che ti sei inventato è monco e incomprensibile, e che il mondo che gli disegni attorno è sempre, sempre fuori fuoco. Che i personaggi parlano in maniera profondamente irreale, che gli scontri verbali che dovrebbero essere il climax della vicenda fanno venire il latte alle ginocchia. Che gli unici personaggi per cui si provi un minimo di affezione nel corso del libro sono quelli con un evidente problema psichico, e anche loro sfruttano l’empatia che non possiamo non provare per i poveri matti.
Che la chiusura con il dialogo dal mondo dei morti è ridicola.
Gli editor, se non avessi tu oltrepassato quel momento in cui si smette di poterti dire che hai scritto una cosa piuttosto brutta,  avrebbero potuto dirti che c’erano delle cose buone: il rapporto con il padre (anche se: due palle questa metafora super-esplicita della macelleria), l’idea di ambientare tutto intorno alla guerra di Corea, il romanzo di formazione che non passa mai di moda perché il passaggio dalla cretinaggine adolescenziale a quella adulta l’abbiamo vissuto tutti e non smette di sembrarci un momento importante. Ma ti avrebbero detto anche che non bastava e che magari valeva la pena di tagliare, tagliare, tagliare e farne un bel racconto (magari bellissimo) di cinquanta pagine.
Ma gli editor hanno smesso di dirti queste cose e quindi, vabbè, l’hai pubblicato.
Pazienza.

(per completezza: Indignazione parla del figlio di un macellaio kosher che va a studiare in un’università lontana per sfuggire all’asfissiante padre. il ragazzino è uno studente modello, ma al college scopre il sesso con una matta e ninfomane ma, oh, molto dolce. Non fa amicizia con nessuno ma litiga col rettore. Fuori incombe la guerra di Corea. Finisce male)

molto peccato, abbastanza vergogna

Mi sono lasciato convincere, anche per motivi para-professionali (ogni tanto mi capita di lavorare sulle fiction) a guardare qualche minuto di "Il Peccato e la vergogna". In cinque minuti sono entrati in scena i seguenti stereotipi:
  1. l'eroe scapigliato ma un po' sfigato (il fratello minore di quello figo?) (probabilmente muore)
  2. l'eroina dura ma al fondo un po' sola che lo salva (si sacrifica o trova l'amore)
  3. l'ufficiale tedesco galante e femminaro, nobile nonostante il suo essere nazista (muore)
  4. l'eroina all'inizio sprovveduta che trova la forza di sfidare le convenzioni e gli uomini per salvare sé e coloro a cui tiene (il figlio?) (finisce bene, amore eterno e cresce contenta il figlio/a)
  5. il fascista cattivo-cattivo ma maschio-maschio (muore male, ma nel suo amore per la protagonista dimostrerà un'oscura grandezza)
  6. il gerarca che sente approssimarsi la fine dell'impero (morirà malissimo)
  7. l'ufficiale nazista viscido (morirà malissimo)
  8. la prostituta dal cuore grande (morte eroica o ravvedimento borghese)
Non sono riuscito ad andare oltre questi cinque minuti, quindi le mie ipotesi sui ruoli rispettivi rimangono ipotesi. A posteriori vedrò quante ne ho prese (non so neanche se quella di oggi era l'ultima puntata o meno).

The Budos Band - The Budos Band III



La Budos Band è una band di New York che da tre dischi (i primi due si chiamavano, fantasiosamente The Budos Band I e II) fa la stessa identica cosa, e la fa particolarmente bene.
Il "cosa" è una miscela di funk e afro-soul strumentale, perfetta per un qualsiasi film anni settanta (blackspoitation pura) o per una scena tarantiniana ben riuscita.
Tutto il disco (tutti i tre dischi, in realtà) è composto da cortissime jam (quasi nessun pezzo va oltre i quattro minuti)  basate principalmente sui fiati, pochissimi assoli (e funzionali), tastiere vagamente psicotiche, chitarre in secondo piano e basso e batteria a creare uno swing di fondo minaccioso. La Budos Band crea un'atmosfera, non ci ricama su, e ti lascia con la voglia di averne ancora; manca forse l'epicità e l'emozione che alcuni loro colleghi hanno (Antibalas e Sugarman 3 su tutti), ma il disco è proprio per questo straordinariamente leggero e divertente da ascoltare.
(Consigliatissimo)

martedì 14 settembre 2010

Michele Mari - Cento poesie d'amore a Ladyhawke


MICHELE MARI
CENTO POESIE D’AMORE A LADYHAWKE
Einaudi, 11.50



Le cento poesie d’amore di Michele Mari vanno lette una dopo l’altra, come se si trattasse di un romanzo, perché poi alla fine un romanzo sono, o poco meno (o magari: poco più).
Sono un romanzo raccontato per ellissi, da un narratore-poeta (chissà quanto autobiografico: non so di Mari abbastanza da capirlo, e in realtà non mi interessa affatto) che non è mai immerso in quello che racconta, ma che lo rinvanga, lo riesamina, lo disseziona con l’astio non solo di chi non è stato scelto dalla donna che amava, ma anche di chi se ne da la colpa (“ma ogni giorno che passa/ si rinsalda in me/ un unico commento/ ed il commento dice/ due imbecilli”), di chi non può fare a meno di tormentarsi [Mi verrebbe da dire: per una di quelle che Rocco, in Porci con le Ali, chiamava “quelle che mi sarei fatto se non fossi un totale inetto”* (con la differenza che Mari parla di un amore altissimo e puro, ma con la congruenza che anche a lui dispiace, con la sua bella, soprattutto di non aver mai consumato)].
E’ la storia dell’amore che il narratore prova per la ragazzina frequentata ai giardinetti (“Tu non ricordi/ ma in un tempo/ così lontano che non sembra stato/ ci siamo dondolati/ su un’altalena sola// Che non finisse mai quel dondolio/ fu l’unica preghiera in senso stretto/ che in tutta la mia vita/ io abbia levato al cielo”) ma soprattutto tra i banchi del liceo, una storia che non si concretizza neanche quando, tre decenni dopo, i due si incontrano di nuovo, in internet e finalmente fuori, senza però andare mai oltre un fidanzamento virtuale e impossibile, schiacciato dal rifiuto di lei di abbandonare la famiglia e la vita che si è costruita, o anche solo di metterla in dubbio “ma tu ben di questo hai avuto paura/ che la buia cantina/ o la polverosa soffitta/ diventassero la parte più importante/ della tua bella e luminosa casa”.
Le poesie di Mari però, oltre l'astio per quello che poteva essere e non è stato, osano il romanticismo più smaccato, quello che si dedica agli amori adolescenziali e a quelli impossibili (due insiemi classicamente congruenti): ed è proprio nelle poesie più romantiche e più scoperte che va incontro ai suoi versi meno convincenti. Il mio critico letterario di riferimento, via sms , mi ha detto che a suo parere le poesie di Mari alla fine ti prendono, come certe canzoni, quando sei dentro a quel tipo di stato d’animo lì (e passato quello stato d'animo: anche no). Che è un pregio, perché significa che dicono qualcosa di vero, ma è anche un enorme difetto, perché vuol dire che hanno bisogno di una ferita, per riuscire a entrare sottopelle. (ed è per questo che a me, davvero, piacciono più di tutte quelle piene d'astio).

Quello che però è veramente notevole di queste poesie, e che a me è piaciuto (ma che potrebbe risultare odioso a molti altri) è il materiale poetico, le analogie e metafore di cui si serve per raccontare la sua storia: un materiale pop (e pop, nell'utilizzo che ne fa Mari sono anche Dante e Cavalcanti), dalla zucca di Cenerentola al film citato nel titolo, dai tre porcellini ("Puntavo sulla paglia o sul legname/ ma dei tre porcellini/ tuo marito/ deve essere quello in salopette con la cazzuola/ perché ho soffiato e soffiato/ ma la tua casa/ non è venuta giù") a Shining, usato per accumulo, a volte usando due o tre riferimenti in pochi versi, sovrapponendoli o confondendoli (soprattutto per quanto riguarda l'immagine del lupo, con cui il narratore si identifica). 
E' un utilizzo che, anche se non sempre funziona, già da solo rende la raccolta meritevole d'esser letta.

(Un avvertimento: il libro si chiude, per me, con un mistero. L'ultima poesia, infatti, è terribile, la peggiore della raccolta e anche la più lunga, e non me ne capacito).



*cito a memoria, non ne ho una copia sottomano, ma l’ho letto troppe colpevoli volte per non ricordare abbastanza bene il tono generale.

lunedì 13 settembre 2010

(agnizione pisana)

Quando me ne sono andato dall'università (non che lei abbia fatto granché per trattenermi), la cosa che più mi è dispiaciuta è stato pensare che non avrei più avuto tutto il tempo che volevo per studiare.
Solo durante questo fine settimana, tornando a pisa, ciondolando in piazza delle vettovaglie e lì scribacchiando al sole, mi sono reso conto che questo, comunque, mi aveva reso libero di leggere.

la forza degli eufemismi e della buona educazione



Asciugamani finissimi, piegati a "c".

venerdì 10 settembre 2010

guardare la tv e non incazzarsi, e non credevo più fosse possibile

E' incredibile.
Ho visto due telegiornali per intero e non mi è venuto nessun travaso di bile.
Ancora più incredibile: non ho imparato nessuna ricetta nuova e le mie competenza in enologia non sono aumentate.
E dire che Mentana non mi è mai piaciuto. Ma forse mi ero disabituato alla consolazione di avere un TG non eccezionale, ma almeno non ridicolo.

giovedì 9 settembre 2010

Bill Callahan - Sometimes I Wish We Were an Eagle



Ci sono generi musicali che vengono bene solo agli scontenti, ai depressi o a chi viene mollato.
(ed è il motivo per cui gli ultimi dischi di Bonnie 'Prince' Billy sono belli, ma non così belli)
Bill Callahan ci ha provato a fare dei dischi più di buonumore, ma erano meno riusciti di questo.
Qui lo dice fin dalla prima canzone "I used to be darker, than I got lighter, then I got dark again".
Il vocione di Callahan è sempre lo stesso (dai tempi degli Smog), il ritmo non è soporifero come in altre occasioni e c'è uno humor nero e assolutamente delizioso in molti dei brani di questo disco.
Per esempio, questa "Eid ma clack shaw" (no, non significa niente, non arrovellatevi), già era uno dei miei pezzi preferiti per il verso (e il modo in cui viene pronunciato) "All these fine memories are fuckin' me down", ma da quando al terzo ascolto ho capito più o meno tutto quello che dice (tranne l'indecifrabile ritornello, che dovrò canticchiare in sogno per poterlo capire appieno) è diventata anthem ufficiale dell'autunno 2010.

mercoledì 8 settembre 2010

CHRONIC CITY - Jonathan Lethem


CHRONIC CITY - Jonathan Lethem

Chase Insteadman è un uomo confuso. Lo dice (la voce narrante è quasi sempre la sua) nelle prime righe dell’ultimo romanzo di Jonathan Lethem, ed è un’affermazione che rende comprensibili molti aspetti della vicenda che occupa le 457 pagine seguenti.
Chase Insteadman (quasi tutti i nomi dati da Lethem ai suoi personaggi hanno un senso) è un attore che vive delle royalties di una sitcom in cui ha recitato da bambino e che si ritrova ad essere di nuovo un personaggio pubblico perché fidanzato di Janice Turnbull, astronauta americana intrappolata (insieme ad altri colleghi americani e russi) in una navicella spaziale in orbita attorno alla terra, e dalla terra separata da una cintura di mine spaziali cinesi.
Janice invia a Chase strazianti e bellissime lettere d’amore (a cui Chase non può rispondere) che vengono pubblicate sul NYtimes in tempo reale, prima ancora di essere recapitate al legittimo destinatario.
Chase però quasi non si ricorda di lei e il libro è quasi tutto occupato dalla storia della sua amicizia con Perkus Tooth, critico rock in esilio-pensione volontario, e dalla sua storia (necessariamente clandestina) con Oona Laszlo, ghost-writer di celebrità assortite.
La New York in cui si muovono Chase e i suoi amici è una New York solo leggermente diversa dal reale: una foschia grigia ha da anni ricoperto la zona degli affari, una misteriosa e imprendibile tigre gigante imperversa nella città e il New York Times viene pubblicato in due edizioni, con la guerra (quale guerra?) e senza.
Tutti gli eventi, le peregrinazioni dei protagonisti per New York (a attraverso le classi sociali di New York, dalla cena col sindaco all’hotel per cani orfani), le loro conversazioni e i loro tentativi scombinati di arrivare a una qualche forma di comprensione di quello che li circonda,  passano attraverso il filtro della confusione di Chase, confusione aggravata dall’erba fortissima che fuma assieme a Perkus. Soprattutto la ricerca di qualcosa che sia vero, in un’ossessione continua per il complotto o l’inganno, la continua ricerca di qualcosa che esista sul serio, che risulti tridimensionale mentre tutto il resto si rivela essere sempre più opinabile, si perde in mille rivoli, in mille discorsi e ipotesi da stonati, in fissazioni alla thc per manufatti che si rivelano meno reali di tutto il resto.
Il passo è così incerto, le conquiste e le agnizioni così precarie o palesemente campate in aria che è facile pensare che il libro non vada da nessuna parte e invece: la storia c’è (e non finisce benissimo), per quanto si sviluppi ai margini dei discorsi e delle ipotesi dei protagonisti, un colpo di scena c’è anche, e molti dei dubbi e delle teorie dei protagonisti si rivelano più reali di quanto si sarebbe mai potuto credere. Chase ci mette troppo tempo a cogliere la verità in quello che Perkus gli comunica nell’ultima parte del romanzo (una delle suggestioni di Perkus, relativa a un vecchio episodio di Ai Confini della Realtà cade nel vuoto, e il protagonista non si ricorda di essa nemmeno alla fine del romanzo quando essa avrebbe più che mai senso: “...ad agosto ha nevicato soltanto due volte ...”) e la sua percezione del reale e di se stesso è così distorta da essere forse l’elemento più importante del libro: perché la percezione che ha Chase è quella che, forse, hanno tutti gli abitanti di New York (stranamente, Lethem non allarga mai lo spettro fuori dalla città, come se fosse un universo chiuso e le lettere di Janice sono un’effrazione solo apparente).

Lethem scrive benissimo, e anche i passaggi in cui è troppo lirico sono giustificabili (anche se forse tagliarli un po’ non sarebbe stato male).  Se questo libro ha un difetto (e non considero il difetto che per lunghi passaggi si abbia l’impressione che niente accada e che niente sia destinato ad accadere) è che alcuni nodi della storia vengono risolti in modo del tutto approssimativo, discorso valido soprattutto per la rivelazione finale di Perkus a Chase.  Il libro sembra non finire sul serio, o finire in un modo insoddisfacente: in realtà, rimane il dubbio che semplicemente la voce narrante, Chase, non abbia capito cosa gli sia successo e continui ad attraversare il mondo e a imbastire rapporti con gli altri come ha sempre fatto.

(alcuni dei simboli, delle connessioni che Lethem sparge per il libro sono troppo evidenti e per questo poco efficaci. Alcuni però funzionano magnificamente e rimangono impressi: la cicatrice del cane Ava, per esempio: l’unica cosa che rimanga vera, fino alla fine del libro)

Poesie in Forma di Nota /23

è la pelle che manca,  i capelli
sono io, che manco a me stesso (fin troppo presente)
(e non posso (capisci?) che dirti una parte
di quello che non mi verrebbe mai in mente*)

perché sarebbe così facile,
guidarti,
con movimenti che vorrei involontari
(maldestri)
e che tu capiresti.


* e ogni parola poi, condannata al sottopelle:
ristagna più dell’attimo che serve.

lunedì 6 settembre 2010

i valori della cristianità, del perdono e dello stato, applicati giustamente alla restituzione di un porto d'armi

Direttamente dalla mia estate grottagliese, un documento VERO in cui ho avuto al ventura di imbattermi e che rappresenta il miglior esempio di prosa narrativa su cui io abbia messo gli occhi quest'anno.
Un lavoro che spinge all'estremo la sintassi italiana, che crea per essa nuove regole d'ingaggio.
Un'opera di fantasia sfrenata (vi assicuro) ma ancorata nella realtà e nel linguaggio vero e quotidiano degli italiani, e soprattutto di quelli che dovrebbero esser letterati e non lo sono. (ma all'esame di avvocato, qualcuno fa caso a COME sono scritti i temi?)
CAPOLAVORO, comunque.

(amo particolarmente: l'uso della parola OFFIZIO, il passo sottolineato e i suoi non sequitur, i "crocifissi di Gesù" e il climax che a loro segue, i continui riferimenti al senso dello stato, ma soprattutto il lirico passaggio contenente l'aggettivo UGGIOSO*)

*In cui scorgo una reminescenza dell'Ulisse di Tennyson: "Re neghittoso alla vampa ... ecc. ecc."

sabato 4 settembre 2010

Rain Machine - Rain Machine



Rain Machine è il gruppo solista del chitarrista (e cantante in seconda) dei Tv On the Radio, Kip Malone.
L'album mi sorprendo ad ascoltarlo sempre più spesso, negli ultimi mesi: va dallo stile del gruppo madre (come in Give blood, qui sopra) a lunghe paranoie acustiche o quasi, come un Van Morrison nero e terribilmente pessimista. Le canzoni ogni tanto si perdono, ogni tanto probabilmente non vanno da nessuna parte. Ma sono belle. (vedi pezzo qui sotto, anche)

mercoledì 1 settembre 2010

Baricco, i Barbari, la superficie, la profondità, la fuffa, la gamba del tavolo e il piede del canterano

Mentre mandavo in stampa il testo del sequel di Baricco ai Barbari pubblicato su Wired per leggerlo con attenzione, mi è capitato di chiedermi: “E se una volta tanto tu scoprissi di essere d’accordo con lui, cosa faresti? Saresti abbastanza onesto da ammetterlo?”.


La domanda non era priva di senso: Mantellini, sul suo blog, paragona l’intervento di Baricco  a un bel saggio di Doc Sears e David Weinberger, World of Ends. Che in effetti è un bel saggio, che dice cose che sono talmente giuste e di buon senso da sembrare scontate, anche se non ci si era mai pensato prima.


Il saggio di Sears e Weinberger parla di internet e di come la sua struttura orizzontale e il suo essere basato su nient’altro che molti computer collegati tra loro e su uno stupidissimo protocollo di trasferimento di informazioni (http, per l’appunto) ne facciano uno strumento stabile (nessuno dei computer e server collegati è centro del sistema, nessuno lo regge, tutti sono all’estremità di esso) e dalle enormi possibilità di sviluppo (le applicazioni specifiche all’interno di internet sono, per i due autori, una diminuzione delle sue capacità e non un loro miglioramente - cosa su cui non sono perfettamente d’accordo).


Baricco non parla del modo in cui internet è composto e del come funziona, non parla dell’http e della funzione dei computer connessi in rete e del modo in cui l’informazione circola tra i vari nodi. Baricco parla dei Barbari che danzano leggiadri tra le informazioni come mai nessun essere umano si è mai sognato di fare, di come il senso si sia spostato dalla profondità alla superficie delle cose e di come l’intelligenza  di pochi polverosi e accademici topi di biblioteca sia stata surclassata e sostituita dall’intelligenza collettiva di stormi di internauti, di un’umanità libera dal dogmatismo perché abituata a ricomporre continuamente le tessere del reale in configurazioni di senso del tutto nuove.


Facciamo un passo indietro.
La voce narrante dell’intervento di Baricco è la voce stessa dell’autore, che parla però da un futuro piuttosto prossimo: il 2026, tra appena sedici anni.
Prima differenza con il saggio di cui quest’articolo dovrebbe essere la continuazione: nei Barbari (se ben ricordo), Baricco descriveva l’orda in arrivo e ne metteva in luce gli aspetti di novità; non nascondeva però di non riuscire a capirla del tutto. La voce narrante era quella di uno scrittore residuo del vecchio mondo ma talmente tanto sveglio da accorgersi delle sue crepe, capace di valutare entrambe le culture, quella in declino e quella emergente, e proprio per questo capace di capire le paure e l’immobilismo dell’una e la voglia di rovesciare l’esistente dell’altra.
Ora Baricco è tutto dalla parte dei vincitori: “noi Barbari” abbiamo vinto, abbiamo fatto la rivoluzione, “un lavoretto d‘artigianato spirituale che passerà alla storia”. Certo, Baricco ammette di aver lavorato per la profondità*, ma ha cambiato datore di lavoro, negli ultimi vent’anni, e ormai chi è rimasto attaccato ad essa “tradisce un certo rincoglionimento”.


La cosa più semplice (e che cercherò di NON fare) consisterebbe nel criticare Baricco mostrando come, date le sue premesse, ci si potrebbe aspettare ben altro rispetto alla sua utopia. (Per esempio: puntualizzando che internet è all’ 80% pornografia e al 15% foto di gattini, e che “costellarci” un senso sopra a queste robe non è mica facile).
Si tratta però di una critica che Baricco ha già previsto e, a suo modo, neutralizzato: ammette che le cose potevano andare malissimo e che la superficie poteva diventare superficialità, ma nel futuro le cose sono andate per il verso giusto, i barbari hanno avuto fortuna, l’utopia pare funzionare e sono tutti più liberi e felici di prima (dice dei suoi abitanti: “ci preoccupiamo, come mai nessuno prima di noi nella storia del genere umano, di salvare il pianeta, di coltivare la pace di preservare i monumenti, di conservare la memoria, di allungare la vita, di tutelare i più deboli e di difendere il lardo di colonnata”**).

Cercherò dunque di concentrarmi su altri aspetti.


(Il problema di Baricco è che bisogna continuamente ritradurlo, mentre se ne parla, e si corre il rischio di farlo sembrare ancora peggio di quello che è***.)


L’’intervento di Baricco si concentra sulla metafora della PROFONDITA’ vs SUPERFICIE applicate al “senso” delle cose. Nel momento in cui si parla di “senso”, le due metafore sono ovviamente due metafore “usate”, in cui gran parte della forza delle immagini è stata erosa dall’utilizzo. Come parlare della gamba del tavolo e del piede del canterano, o quasi.
Baricco sviluppa il suo argomento cercando di rivitalizzare le due metafore, tornando a quello che il loro utilizzo ci dice della nostra visione del mondo. Per  il vecchio mondo il senso è nella profondità: è frutto di scavo, si riporta alla luce, si fa fatica a farlo, ci vuole sudore della fronte e pazienza. Alla fine, ad essere capaci di resistere e lavorare così tanto si rivelano tragicamente pochi. Nell’utopia dei barbari, il senso non è qualcosa di indefinibile o da ridefinire ogni volta (quella è una stazione intermedia, una cosa che i barbari hanno affermato a un certo punto per poter andare oltre la statica visione di quelli che c’erano prima), ma è dato da una “collezione di evidenze sottili, perfino fragili, che organizziamo in figure di una certa potenza”. Il mondo dei barbari è un mondo di velocità e brandelli di informazione: non ci si sposa per sempre, si ascoltano frammenti e mail il tutto, si ascoltano reading (frammenti di reading, immagino) invece di leggere libri, ecc.


Primo problema: che cosa sarebbe questo “senso ultimo delle cose” che il vecchio mondo cercava nella profondità e che adesso è in superficie? Si tratta della ragione della loro esistenza? Della causa finale? Della causa prossima? Della loro composizione fisica, del loro funzionamento? Del significato che assumerebbero ad uno sguardo altro (troppo Angelus Novus?), del significato che avrebbero dopo la rivelazione (troppo Minima Moralia?)? A leggere Baricco sembra che “senso” sia un modo per indicare una forma di idea platonica, o di intuizione, o di verità ultima capace di disvelare l’identità totale delle cose, di permettere la loro piena comprensione. Sono rimasto un “barbaro” non sviluppato se credo che, messa in questi termini, mi sembra un’idea sorpassata e inutile? La vecchia era cercava qualcosa di inesistente in un luogo e noi siamo convinti che stia da un’altra parte. 
BENE: PECCATO CHE NON ESISTA.


Secondo (più grave, meno legato al mio personale cinismo/ateismo): la profondità non è l’unica metafora che il vecchio mondo usava. E’ solo quella visivamente e intuitivamente più semplice da mettere in discussione. C’era quella del duro lavoro, per dire (tutto l’articolo di Baricco si può facilmente riscrivere usando l’opposizione FACILITA’/DIFFICOLTA’). Della serietà/pesantezza (IDEM vs LEGGEREZZA, o verso IRONIA), ecc. Combattere l’idea di profondità usando la metafora del volo e il suo appeal contro la metafora dello scavare con i suoi ovvi connotati negativi è facilissimo: contrastare le caratteristiche indicate dall’idea di profondità è meno direttamente legate all’immaginario metaforico è più complicato. Per esempio: le idee di VERIFICABILITA’ e di COERENZA. Che posto hanno nell’argomentazione di Baricco questi requisiti di ogni idea “sensata” secondo i concetti del vecchio mondo? Il senso costruito dai barbari rispetta queste caratteristiche? E se non lo fa come sopperisce ai buchi che crea la loro assenza (per esempio: quello della RESPONSABILITA’). I barbari ragionano e creano sensi (e verità?) in stormo: di chi è la responsabilità dei loro errori? Oppure questa intelligenza comunitaria è talmente superiore da arrivare ad intuizioni pure e immediate?


Terzo (scontato, forse dovevo metterlo come premessa): tutta la discussione di Baricco è un ovvio discorso Giovani Vs. Vecchi in cui un vecchio anagrafico si mette dalla parte dei giovani (probabilmente non capendo nulla di quel che dicono). Prendere una qualsiasi avanguardia o un qualsiasi movimento giovanile e  discorsi sono più o meno gli stessi: noi abbiamo un modo più diretto di arrivare alla verità rispetto a voi, la vostra è polverosa e limitata, basata nel passato invece che nel futuro, ecc ecc. Ovvero: ROMANTICISMO FOR DUMMIES.


Quarto (antropologico): Baricco, bontà sua, pensa che gli uomini siano buoni, in natura. Che, se gli dai libero accesso all’informazione e li metti in condizione di comunicare con tutti, allora gli esseri umani tenderanno ad allargare la propria tribù, il proprio clan, all’infinito, fino a comprendere tutti gli altri. La benevolenza che si ha per i propri familiari e amici sarà estesa a tutto il mondo, il che porterà a un’era di pace e amore.
DUE EVIDENZE:
UNO: Baricco ha dimenticato cosa in realtà sia una famiglia (o un gruppo di amici abbastanza grande) nella REALTA’.
DUE (sottintesa nella uno): gli uomini non sono uguali, non desiderano essere uguali, non vogliono le stesse cose, desiderano comunità ristrette e verticali (per sognare di esserne al vertice) e soprattutto NON SONO BUONI.
(TRE: non importa quanto siano infinite le risorse, ce n’è sempre una abbastanza scarsa per cui valga la pena di scannarsi)
Quarto bis: non c'è correlazione tra una variazione dell'architettura del senso e il maggiore rispetto degli altri o peggio ancora del lardo di colonnata. Anzi. Una architettura in movimento, in cui l'importanza è nel muoversi e nel danzare coglierà come inutile ciò che è testimonianza di quello che è vecchio e sorpassato. Il massimo che potrà farne sarà una citazione ironica
Il movimento chiamava guerra, pochi decenni fa, e sembrava perfettamente razionale (e forse lo era).

Quinto (post-rivoluzionario): Baricco colloca il suo sé sedici anni nel futuro. Non può fare di più. Dipinge una società che, bene che vada, è rivoluzionaria (seppur pacificamente), ma ancora al primissimo stadio. I figli dei barbari, alcuni di loro, vorranno della profondità, cercheranno di mettersi al capo degli stormi e di influenzare le costellazioni di senso, invece di coglierle danzando. Triste, ma è così. Se Baricco scrivesse tra trent’anni invece che sedici, parlerebbe di guerra civile, o di un buon padre che “ha dato armonia” ai voli troppo discordanti dei primi barbari, benemeriti padri della rivoluzione, e li ha preservati dagli attacchi di revanscismo profondista dei loro stessi figli.

Come previsto, non ero d’accordo, con l’articolo di Baricco.


*più correttamente: direi che si è illuso di farlo, dai.


** questi elenchi, sicuramente ben scritti per quanto melensi, sono sicuramente una delle cose che più trovo FASTIDIOSE e DISONESTE nello scrivere di Baricco: il mischiare troppe cose diverse - ma tutte, sia chiaro, condivisibili - in modo che diventi difficile criticarle una alla volta. Perché i nuovi barbari dovrebbero difendere il lardo di colonnata? O i monumenti? Che relazione ha con la velocità e la leggiadria delle loro esistenze? Circa il tutelare i più deboli e difendere la pace, poi, ne parlo sopra, più avanti.


***Se possibile