lunedì 18 ottobre 2010

Non voglio che Clara "Dei Cani"

Premessa Uno: I primi due dischi dei Non voglio che Clara (entrambi bellissimi) sono composti esclusivamente da canzoni d'amore. La parola amore e suoi derivati viene però pronunciata in tutto tre volte (solo nel secondo disco) e in contesti relativi all'amore fisico (2 volte il verbo "amare") o pesantemente non-romantici (in un'altra canzone che ora non ricordo).
Ho sempre interpretato questa cosa come un ottimo esercizio di stile, salutare rispetto all'orgia di rime in "ore" che popola la musica italiana.

Premessa  Due: I Non voglio che Clara, in un altro universo, avrebbero vinto già due o tre edizioni di Sanremo e io non mi dovrei trovare a difenderli e a propagandarli come esempio di musica italiana decente. Fanno bella musica (un pop italiano intimo e cameristico, basato sul piano e sulla chitarra acustica, con qualche apertura orchestrale), completata da una bella voce e da testi non bellissimi ma con dei buoni passaggi, non scontati. E soprattutto senza l'onnipresente ammmore che tutti unisce.

In questo nuovo disco (quattro anni dopo il penultimo) non si comincia bene: la parola amore è la decima della prima canzone, e per me questo è un segno.
Il pop da camera lascia lo spazio (soprattutto nei primi pezzi dell'album, poi la cosa si perde e si torna alle vecchie sonorità) a una produzione un po' shoegaze che non sarebbe neanche male (non ho niente contro le chitarre effettate, contro la batteria un po' innaturale).Quello che non convince fino in fondo sono però  le aperture nei ritornelli, mai così esplicite (è anche un problema di testi: a doversi inventare dei ritornelli - più melodici e da ripetere in punti diversi della stessa canzone - mi pare che Fabio De Min, il cantante-autore del gruppo, abbia qualche problema: non vanno troppo d'accordo col resto delle cose che dice), i testi un po' più melensi (anzi: più esplicitamente melensi, lo erano anche prima, ma bisognava entrarci dentro), l'esplicitazione di qualcosa che prima veniva per lo più accennato. E un certo avvicinamento - nelle canzoni più movimentate - a Dente.

In più, in un paio d'occasioni, De Min fa il giochino dell'orrido Bianconi dei Baustelle e cambia gli accenti alle parole per far tornare versi e musica (soprattutto nella deprecabile "Gli anni dell'università"). Ciò è imperdonabile.

Restano, belli, alcuni pezzi di alcune canzoni. In certi casi bellissimi, come l'inizio de "L'Estate" (che si rovina, ahimè, nel ritornello):

"A luglio diedi il cane ad un canile
in cambio di una libertà maggiore
e ad agosto, tra botte e sassaiole
per via della rivolta sindacale
restai solo, senza cane e lavoro
restai solo, con in bocca un gusto amaro.

E quando poi settembre fu alla fine
non potendo dire 'qui sto bene'
mi dissi 'qui meglio sparire'
e ad ottobre pensai bene
per primo me ne andai a puttane"

Insomma: una mezza delusione. A parte il titolo del disco, che è bellissimo.
Uffa.

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