lunedì 31 dicembre 2012

Sotto l'albero niente




Boogie Nights – 1997, 152’, regia di P.T.Anderson.
Daisy Diamond – 2007, 94’, regia di Simon Staho.
Due film sul finire dell’anno, uno piuttosto famoso, l’altro molto meno, anche perché non so neanche se sia stato distribuito in Italia, comunque si trova in originale e si trovano pure i sottotitoli in italiano. Boogie Nigths perché è scanzonato per buona parte, sono oltre due ore che filano che è un piacere, Daisy Diamond perché al contrario è raggelante, parte male e finisce peggio, ma lo fa con freddezza e rigore. Il protagonista di Boogie Nights è un giovincello ben messo là dove una certa cultura mascula asserisce che sia d’uopo essere ben messi. La protagonista di Daisy Diamond è una giovane attrice con una brutta storia alle spalle che passa di provino in provino, subendo meschinità e quant’altro, con una figlioletta che non smette mai di piangere ( e che fa venire voglia a tutti credo una certa idea ). Il mondo raccontato da Paul Thomas Anderson è quello del porno americano ( qua ci starebbe tutto citare il reportage sugli oscar del porno di… ) nel passaggio dagli anni ’70 agli anni ’80, un periodo interessante perché c’è stato il passaggio dalla pellicola e quindi dai film fatti per il cinema, ai film in cassetta. Un passaggio citato anche nel Grande Lebowski, quando Jackie Treehorn lamenta la perdita dei sentimenti ( mannaggia mannaggia ). Non sono un cultore del genere, quindi non saprei dire cosa è effettivamente cambiato e cosa no, al di là delle specifiche tecniche, certamente una minore qualità da un punto di vista filmico, meno attenzione alla storia ( ovvio che fa ridere detta così ) e via dicendo. Ci saranno pure saggi interessanti in tema, magari un giorno farò una ricerchina. La cosa buffa è che in Boogie Nights, il personaggio che fa il regista sogna che il pubblico veda i suoi film non solo per andare al cinema a farsi le seghe ( dico, gente, a pensarci mi vengono i brividi, però è strano, pure in Caro Diario Moretti si lamenta dei tipi in tuta che si vedono i film in casa e ormai non escono più; e quindi anche nel mondo del porno si registra questo cambiamento sociale, dal pubblico al privato, non si condividono più neanche le seghe, che brutto mondo ), ma che resti o che comunque si interessi a tutta la storia. Che in fondo è semplicemente fare dei bei film con le scene di sesso vere, come in Shortbus ad esempio. Boogie Nights è un film corale, in cui ogni personaggio vive la propria ascesa e caduta, con le occasioni che vanno e vengono un po’ a caso, che si intristisce ogni tanto, che diventa pure efferato, ma senza essere duro, e dando un’altra occasione per reinventarsi quasi a tutti. Certo, ha un po’ quell’effetto dei bei tempi andati o del “poi sappiamo come sono andate le cose”, ma non ha praticamente punti morti e diverte. E poi c’è la scena del capodanno che è fenomenale. Daisy Diamond è più complesso nei rimandi e più spartano nel racconto, fisso sulla protagonista, sulla sua discesa nella dannazione per purificarsi. È molto didascalico per certi versi, nel seguire le varie fasi del dramma, però impreziosito dal fatto che essendo un’attrice, la protagonista intreccia vita reale e vita di scena ( in realtà provini, mai veramente in scena ), più vita sognata e redenta. C’è una totale solitudine ( con un piccolo momento di tenerezza e di confidenze ), un senso di squallore e di beffa crudele. È un film forte che dà modo di riflettere su un personaggio, sulla sua storia. Il difetto è che mi pare tutto molto aggiustato, e che anche se il dolore non viene usato in maniera “ricattatoria” comunque sembra che stia lì per arrivare a dire qualcosa di extra che non capisco.

sabato 22 dicembre 2012

domenica 25 novembre 2012

...

Da Latte Nero di Elif Shafak:

Per settant'anni la mia opinione sulle donne non ha fatto che peggiorare, e peggiora ancora. La questione femminile! Certo che c'è una questione femminile! Solo che non riguarda come le donne debbano prendere il controllo della vita, ma come possano smettere di rovinarla.
                                                                                                                  Tolstoj il misogino

Lo scopo della vita non dovrebbe essere trovare la gioia nel matrimonio, bensì portare più amore e verità nel mondo. Ci sposiamo per aiutarci reciprocamente in questo compito.
                                                                                                                  Tolstoj il femminista

Provo una grande tenerezza per lei ( la figlia Maša ). Solo per lei. Lei compensa gli altri, potrei dire.
                                                                                                                  Ancora Tolstoj


martedì 20 novembre 2012

Considerazioni alla vigilia di un compito in classe


L’intero capitolo 19 del Re Pallido è incentrato sul senso civico, sulla democrazia in America, sull’individualismo, sulla protesta anni ’60 divenuta moda inglobata dalle corporazioni, per finire a un modello in cui i cittadini da produttori sono diventati consumatori. È un discorso che avevo più o meno trovato in Consumed, di Barber. È un capitolo di dialoghi fra funzionari delle Entrate. Si parla di de Tocqueville e Rousseau, di Padri Fondatori, di Jefferson. Per coincidenza io sto “studiando” la Rivoluzione americana al serale, per cui doppio gusto. Nel dialogo il riferimento a de Tocqueville è questo: “dove dice che una particolarità delle democrazie e del loro individualismo è che per loro stssa natura erodono il senso di vera comunità del cittadino, l’impressione di avere davvero concittadini con preoccupazioni e interessi uguali ai suoi. Che è un paradosso agghiacciante, a pensarci, perché una forma di governo architettata per produrre uguaglianza rende i suoi cittadini così individualisti e presi da se stessi che finiscono col diventare solipsisti, concentrati sul loro ombelico”. Poi vado sul mio libro di storia per le superiori e per fortuna c’è una pagina proprio da La democrazia in America, del 1835, di de Tocqueville. Ed è effettivamente agghiacciante, aldilà del tono plumbeo ( fa venire in mente quella scena dei Simpson in cui Marge incontra Stephen King ): “Penso che la specie di oppressione che minaccia i popoli democratici non assomiglierà a nessuna di quelle che l’hanno preceduta nel mondo; le vecchie parole come “dispotismo” e “tirannide” non sono più adeguate ( sarebbero venuti i totalitarismi è vero, ma il senso rimane ). Vedo una folla innumerevole di uomini simili che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare; è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l’unico agente ed il solo arbitro”. Ora, io non saprei bene cosa dire. Se pensiamo ad oggi, uno dei temi “nuovi” è che il principio della delega mostra alcuni limiti. Le scelte economiche sono dettate senza che le si possa mettere in discussione. Non sono portato per una discussione di questo genere, però mi ha colpito il passaggio di de Tocqueville. Che i libri di Wallace ne siano impregnati è adesso ancora più interessante. Per esempio il tema della consapevolezza. L’insegnamento che teneva più a cuore di fronte agli laureandi e che viene però in certo senso messo in dubbio sia in Infinite Jest, sia nel Re Pallido, quando in due brevi passaggi scrive chiaramente che le scelte che poi condizioneranno la nostra vita non sono mai consapevoli. Da una parte la consapevolezza per toglierci questa sensazione di centro dell’universo, con le sue implicazioni esistenziali di nullità assoluta in confronto, che sfociano nel consumo compulsivo, nel dover essere qualcuno, lasciare il segno. Dall’altra il pensiero accidentale, quello che si manifesta in piccoli e inconsistenti frammenti, ma che ci direziona eccome. La cosa bella è di essermi accorto di un filo conduttore tra le opere, o almeno così mi è parso. In fondo non c’è nulla di tortuoso, ma per una persona che non ha studiato non è così semplice andare più a fondo nella lettura. Quindi oltre alla sensazione di leggere un autore con cui si “sente” qualcosa di affine, ma non si sa bene dire cosa, si è aggiunta la sensazione di cominciare a ascoltarlo veramente. Anche se poi le pagine finiscono e mi pare sempre che manchi qualcosa, forse perché mancano delle opere. O perché non capisco e la riflessione rimane superficiale.

Ok, non mi odiate, perdonate l'entusiasmo da primo giorno di scuola. Oltretutto faccio un sacco di assenze.
Vado a cercare un poster di DFW





domenica 18 novembre 2012

PRESI ALLA POLVERE






Due grossi volumi, un'antologia della canzone italiana partendo dai primordi. Oltre 1000 testi raccolti. Certo, è una bella spesa, 78 eurotti, ma si trova anche con un poco di sconto. Il curatore, Leonardo Colombati, è anche scrittore di romanzi, Perceber fra gli altri, l'unico che conosco e che ho cominciato a leggere, e che segnalo per il suo essere un romanzo-mondo, come vengono dette queste opere da chi lo sa dire. L'autore si rifà esplicitamente a Joyce e Pynchon, e la storia è ambientata a Roma.


sabato 17 novembre 2012

PRESI ALLA POLVERE

“Sono uno che fa cose tipo salire su un taxi e dire al tassista: “In biblioteca, e a tutta””.

 Un piccolo e utile saggio.

 Il commento personale, in fondo trascurabile, e, dato il caso, detto davvero senza ironia ( non senza però il compiacimento effettivamente sciocco nello scrivere “detto davvero senza ironia”; un peccatuccio perdonabile in fondo ): Dopo di questo solo liste della spesa. Depressione, divertimento, dedizione, dipendenza. Dopo la seconda lettura. Edmund Wilson scrisse a proposito di Joyce, dell'impegno che richiede, del fatto che se uno scrittore ci ha messo anni a fare un libro, un lettore non può pensare di cavarsela con una sola lettura. In più, alcune letture danno proprio piacere, sono divertenti, ti prendono. Certe opere incidono a fondo. Tolti però l’intrattenimento puro e semplice, anche della maggior qualità possibile, e quella che si potrebbe dire la descrizione del mondo, di noi, certe volte rimane il bisogno di leggere, solo quello, continuo, di conoscere il più possibile. Dentro Infinite Jest ( IJ ) c’è scritto a un certo punto, che ognuno pare avere un’attenzione ossessiva per qualcosa. E in Questa è l’acqua, che credenti o meno, non possiamo esimerci dal venerare ( dunque diventa fondamentale riuscire a scegliere a cosa pensare: che poi sia i giovani tennisti dell'accademia sia i residenti della casa di recupero, sono soggetti a cui viene detto di non pensare: i primi per essere immersi nel gioco senza spazio per il proprio Io, un ostacolo alla vittoria; i secondi perché solo seguendo regole precise possono sperare di farcela contro la dipendenza ). IJ, nel suo modo di prendere il lettore ( ammesso che accada, ovvio ), diventa quasi simile al film diabolico omonimo di cui parla, l’ipotesi di un tentativo analogo, per fortuna impossibile. Per cui verrebbe da dire che Wallace non voglia che i suoi libri siano letti assiduamente, ma con misura. Il nodo alla fine è che IJ racconta l’epoca in cui è stato per la prima volta così accessibile il piacere alla massa. Lo fa in maniera strabiliante nelle descrizioni e nell’azione, e vicina all’essenziale, soprattutto nei dialoghi. Un altro nodo mi sembra la percezione di sé. A parte quando siamo chiaramente felici o tristi, come stiamo? Il fatto stesso che uno ci pensa è indice che le cose potrebbe andare meglio? Mah!

sabato 10 novembre 2012

Fiction's about what it is to be a fucking human being

Punch-drunk love - Amour - Io e Te - Clerks. Un ragazzino che evita gli altri sgusciando di soppiatto da una settimana bianca per rifugiarsi in cantina, per uno scontro-incontro con un’anima ammalata. Un giovane intrappolato in un lavoro poco stimolante, indeciso sul da farsi nel campo sentimentale e sul futuro. Un uomo segnato da un’infanzia opprimente alle prese con un colpo di fulmine e con le sue nevrosi. Un vecchio che assiste impotente la sua compagna appassire, affrontando fino all’ultimo e con ammirevole forza la vita che se ne va. Si passa dalle punte toccanti, strazianti e snervanti di Haneke alla demenzialità delle situazioni messe in scena da Kevin Smith. Bertolucci restringe il campo visivo e si fionda nel mondo interiore di uno sbarbatello incazzoso e solitario che si vede invaso dalla sorellastra sotto “rota”. Paul Thomas Anderson diverte e stupisce con una situazione che si ingarbuglia man mano, si infittisce di tentativi a vuoto e di passi falsi, seguendo le evoluzioni della mente del protagonista sotto pressione. Un balletto bizzarro e confuso mentre sopra le teste dei protagonisti da un momento all’altro sta per cadere qualcosa di grosso.

venerdì 2 novembre 2012

CHI HA PAURA DEL BUIO?

Session 9 ( 2001 ) Regia di Brad Anderson ( quello dell'Uomo senza sonno ). Considerando che l'ho visto in inglese e non ho potuto capire tutto, e considerando che gioca molto sull'aspetto psicologico, mi è piaciuto molto lo stesso. Con poco riesce a dare più di tanti film horror. Come cornice parte un po' come Shining, una grossa villa e una settimana scandita giorno per giorno, settimana in cui una ditta di disinfestazione dovrà lavorare nella villa. Cinque uomini al lavoro. Detto questo, per chi vuol provare i brividi seri, i videogiochi horror non si battono. Il primo e unico amore fu Resident Evil, e ci siamo capiti. Poi smisi di giocare con la Play, praticamente giocavo solo a Pes, mi ricordo di Clock Tower 3, in cui il personaggio era una bambina e al primo livello era inseguiga da un lupo mannaro che brandiva un grosso martello. La bambina andava a due all'ora e non aveva armi. Mi faceva stare male. Il bello è che una volta su Fuori orario trasmisero alcuni videoclip di quel gioco. Comunque, un amico mi ha prestato Silent Hill 2. Stanza buia, notte fonda, cuffie, strizza continua.

giovedì 18 ottobre 2012

IL MONDO NUOVO

« Essere, o non essere, questo è il problema: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine. Morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo, perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale deve farci esitare. È questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga. Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe darsi quietanza con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli, grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa, se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte, il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti? Così la coscienza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e momento per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azione. »

Ore 17:00, italiano, compito in classe: breve riassunto del monologo, varie domande sul perché e il percome e infine la domandona: che ne penso io e i giovani ( ‘sti cazzo di giovani ) del suicidio e legami con il monologo. Due ore di tempo. In realtà quattro, ma io il giorno prima ero assente. Io ho pure letto un saggio sul suicidio, quello di Marzio Barbagli. E mi sono anche impegnato per tirare fuori qualcosa di sensato, pure nel breve tempo a disposizione, considerando che poi dovevo ricopiare in bella e rispondere alle altre domande. Considerando soprattutto che non so cosa pensano i giovani del suicidio e di Amleto, e neanche io in fondo. A un certo punto guardando i miei compagni mi è venuta la curiosità circa i loro pensieri. Chissà che avranno scritto. Io non ho resistito a tirare in ballo Ian Curtis e DFW, così alla cazzo di cane, un po’ per vedere se la prof mi chiederà chi sono ( magari li conosce ) e un po’ per vezzo, dopo un accenno a un amico che lavora in fabbrica e che un motivo per farla finita ce l’ha di fronte quasi tutti i giorni. Però in verità mi è piaciuto farlo, avere la sensazione di poter dire qualcosa di significativo con la campanella che incombe e la consapevolezza che no, non è in quelle mie poche righe, una ventina, che si cela un qualsiasi segreto. Se c’è una cosa che ho capito è mi affascina l’idea del suicidio, se un artista si è suicidato subito mi viene l’interesse per le sue opere. Molto comune immagino e molto banale. Quando ero più giovane ( dagli! ) e squinternato vivevo molto male, non so fino a che punto ne ero consapevole, ma certamente ripensandoci mi rendo conto di quanto tempo ho sprecato e di quanta vita ho fatto a meno ( non saprei come definire il fatto che una persona racconti i fatti propri sul web, una sorta di esondazione biografica, una estrema solitudine nonostante una vita sociale accettabile. Un po’ di tempo fa Elasti segnalò un blog di una giovane che raccontava il suo problema e a me pare una cosa incredibile, che supera l’interesse per Shakespeare ). Insomma, direi che questo monologo mi fa pensare a ciò che sta in mezzo, ovvero come vivere meglio. Come stiamo, dunque?

Infine il film, Alps, il secondo di Lanthimos che vedo, curiosamente l’altro film di lui che ho visto è stato il primo che ho recensito qua. Non so bene cosa dirne, l’altro ( Dogtooth ) mi pare migliore. Una farsa fredda e desolante, imbarazzante, a sprazzi ridicola. Partendo dalle parole del regista, è un film in cui delle persone cercano di sfuggire dalla propria vita per metterne in scena un’altra, impersonando persone defunte al servizio dei loro famigliari. Come Amleto non sa più se la sua follia sia recitata o vera ( almeno da quel che ho capito, o almeno da quello che c’è scritto sul libro di testo, dato che l’opera intera non la conosco ), così la protagonista non si accontenta di fingere.

mercoledì 17 ottobre 2012

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Un'intervista ( si può anche scaricare ) http://www.antiviolenzadonna.it/ http://maschileplurale.it/

martedì 16 ottobre 2012

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Eterni cortili di scuola  ( schoolyards of forever ) - Charles Bukowski



il cortile della scuola era una fiera degli orrori: i bulli, i
fanatici
i pestaggi contro la rete di recinzione
con i compagni che stanno a guardare
contenti di non essere loro le vittime;
ci menavano per dritto e per rovescio
giorno dopo giorno
e poi venivamo
seguiti
presi per i fondelli per tutta la strada fino a casa dove spesso
ci aspettavano altre botte.

nel cortile della scuola i bulli avevano il potere in mano
e nei bagni e
alle fontanelle facevano
il bello e il cattivo tempo
ma a modo nostro noi tenevamo duro
non abbiamo mai chiesto pietà
li affrontavamo a faccia aperta
in silenzio
siamo stati temprati da quelle cose orrende
cose orrende che in seguito ci sarebbero tornate utili
e allora stranamente
mentre noi ci facevamo più forti e più spavaldi
i bulli a poco a poco hanno cominciato a stare sulle loro.

elementari
medie
superiori
siamo cresciuti come piante trascurate e fuori posto
trovando nutrimento dove capitava
sbocciando col tempo
e poi quando i bulli hanno cercato di diventare nostri amici
noi li abbiamo respinti.

poi l’università
dove sotto regole nuovi
i bulli si sono squagliati quasi del tutto
noi diventavamo di più e loro diventavamo molti di meno

ma adesso c’erano dei nuovi bulli
i professori
ai quali si dovevano insegnare le dure lezioni che avevamo imparato

godevamo da matti
era sontuoso e facile
le compagne costernate dal nostro rischiare
e dalla nostra freddezza
ma noi non ce le filavamo per niente
in attesa della battaglia più tosta là fuori

poi quando siamo arrivati là fuori
ci siamo trovati di nuovo con le spalle al muro
daccapo con altri bulli
profondamente rafforzati dalla società
capi e consimili
che ci hanno tenuto al nostro posto per decenni a venire
così che abbiamo dovuto ricominciare tutto da zero
per strada
e in anguste stanze di follia
stanze sempre con poca luce in pino giorno
è andata avanti così per anni e anni
ma il nostro addestramento precedente ci ha permesso di resistere
e dopo un tempo apparentemente
infinito
finalmente abbiamo imboccato il tunnel in fondo alla luce

è stata una vittoria da ben poco
senza canzoni da smargiassi perché
sapevamo di aver vinto molto poco dal molto poco che c’era da vincere
e che avevamo combattuto tanto duramente per esser liberi
solo per la dolce soddisfazione dell’impresa

ma ancora adesso vediamo il bidello delle elementari
con la sua scopa
e la faccia sonnacchiosa;
vediamo ancora le ragazzine ricciute
dai capelli meticolosamente spazzolati e lucenti
negli abiti appena inamidati;

vediamo le facce degli insegnanti
ingrassati ingobbiti infelici;

sentiamo la campanella della ricreazione;
vediamo l’erba e il diamante del baseball;
vediamo il campo da pallavolo e la rete bianca;
sentiamo il sole lassù sempre alto e lucente
che si riversa su di noi come il succo di un mandarino gigante

e non ce lo siamo dimenticati presto
Herbie Ashcroft
il nostro aguzzino principale
dai pugni duri come sassi

quando ci rannicchiavamo intrappolati contro la rete di metallo
e sentivamo il rumore delle auto che passavano senza fermarsi
mentre il mondo se ne andava in giro a fare quel che fa di solito
noi non chiedevamo mai pietà
e ritornavamo il giorno dopo e il successivo e quello dopo ancora
in classe
con le ragazzine dall’aspetto tanto calmo e sicuro
sedute belle dritte al loro posto
in quell’aula di lavagne e gesso
mentre noi restavamo cupamente aggrappati al nostro sdegno ostinato
per tutto quell’orrore e quei conflitti
e aspettavamo che qualcosa di meglio
arrivasse a darci conforto
in quel mondo da-non-scordarsi-mai
della scuola elementare.

(…and waited for something better
to come along and comfort us
in that never-to-be-forgotten
grammar school world. )


domenica 7 ottobre 2012

ECCOLI QUA


Non distinguere la luce dal buio mentre si aspettano notizie peggiori che il morire stesso.
Di fianco giacciono scatole di cioccolatini scaduti affiorano formiche da ogni dove
non respiro più come prima e mi annoio. Cosa provo a parte un leggero sconforto dovuto alle previsioni del tempo e alla lettura del giornale di ieri, chi osservo, chi sono questi tizi che camminano nella mia casa in cerca di oggetti che non  possiedo più da tempo?
Tu mi dicevi sempre che non è bello andarsene dal cinema senza vedere tutti i titoli di coda, ma io sapevo risponderti con una timida alzata di spalle che poi avrei comprato il dvd.
La spesa l’ho fatta, il meccanico è stato scortese e mi ha sbirciato insistentemente la scollatura, mentre io fissavo le sue mani sporche e il nero fra le unghie e il viscido negli occhi, desiderosa che morisse e cadesse così ai miei piedi.

Ancora mi manchi?

In questo sono simile ai pesci, può sembrare che non abbia niente da dire, che mi accontenti di aprire la bocca per prendere fiato, che mi rassegni al ruolo, a qualsiasi ruolo che mi sia stato assegnato, e basta, che io finisca lì, che esista solo su chiamata, solo se servo a qualcuno, a qualcosa.
Alla famiglia che senza di me, all’educazione dei figli, adesso anche nei parlamenti e nelle giunte comunali, nelle facoltà scientifiche, servo sempre di più. Servo.

Di nuovo avverto la sua ombra, le sue mani bramose di carne palpabile, vorrebbe strappare ogni tessuto sintetico che incontra, ogni fibra naturale che l’ostacola, sento il suo respiro affannato, sento che sta per cedere alla bestialità tramandata da millenni e anche di più, sento che ogni mio grido sarà malinteso, sarà linfa vitale per l’animale.

Anche ieri hai impiegato mezz’ora per accordare la tua chitarra, hai sempre paura di rompere l’ultima corda, la più sottile, sei stato fermo con il pollice e l’indice della mano sinistra a fissare l’accordatore elettrico che si è fatto buio e ho dovuto accenderti la luce, ti ho chiamato due volte e vedevo che tremavi un poco. Poi non volevi mangiare.

Non ho sonno, eppure dovrei. Domani mi aspetta una giornataccia; se passo la mano nell’altra metà del letto sento tutta l’assenza del mondo, sento una parte del mio cuore uscire di nuovo senza salutare.

C’è ancora spazio per la polvere nella mia testa, urla mia madre che sta seduta di fronte alla finestra a guardare il mare. Siamo al quinto piano. Nel palazzo ci odiano tutti. La chitarra di mio figlio e le urla di mia madre. Me stessa. Quando scendo e salgo le scale le occhiate mi trafiggono. Sento le buste della spesa strapparsi, le bottiglie d’olio andare in frantumi e la mia disperazione nuda di fronte alle risate sguaiate e sprezzanti sommergermi fino a farmi soffocare.

Ancora 4 in matematica. Più una specie di zuffa per colpa di una offesa. Una macchiolina di sangue altrui sui jeans e una convocazione dalla preside dell’istituto tecnico industriale.

E tu correvi con il sole alle spalle e ridevi con il naso all’insù. Eri felice e si vedeva.

La dimensione del lutto è tetra e commovente, però anche liberatoria, soprattutto nei funerali sotto la pioggia. Quando penso a qualcuno che se ne è appena andato, penso che il mondo sarà per un po’ più leggero, e anche il suo corpo, libero dal peso dell’anima, libero dagli sguardi degli altri, dai loro pensieri, onde che colpiscono, colpiscono sempre, micro punture insistenti fino a che la misura è colma.

Non mi crede più. Mio figlio da quando prende brutti voti a scuola non mi crede più. Dice che gli ho sempre detto che era bravo e intelligente e adesso dice che lo prendono in giro. Ora è meglio aspettare e sperare in un buon voto, mi va bene anche se in religione o educazione fisica. Ma ce l’avrà una fidanzatina?

Cos’è che mi manca allora, che mi aspetto ancora dalla vita, dalle vite, da quelle degli altri, da questa città, da questa casa con famiglie e luci accese a fingere il focolare domestico, cosa dovrei aspettarmi prima di invecchiare? Dovrei forse rimettermi in cerca di un uomo, un altro? Adottare una sorellina per allargare l’allegra compagnia, magari un cucciolo che costa pure meno, potrei uccidere la vecchia sorda che urla invece, e dare una svolta netta a questa storia, invece che lamentarmi; posso? Non ho vizi, non bevo e non mi drogo, mi lavo, fatico, mando avanti una casa e una famiglia.

Prenderai freddo così, còpriti - mettiti la felpa grigia quella con il collo alto... - sennò mettiti la sciarpa - a che ora torni? È troppo tardi, si cena alle sette e mezzo lo sai - come sarebbe che mangi da solo? –
Non se ne parla neanche.

Un vecchio assiste al suo riflesso di fronte ad una vetrina di un negozio di dolciumi, scoprendo nuovi solchi sulla pelle, nuove rughe, nuovi segni di un passato, mentre un tuono all’improvviso gli ricorda che è il momento, la vita prova a distrarlo per un’ ultima volta. No, queste sono scemenze.

Alle sue spalle rapinatori in maschera fuggono sparando colpi in aria, lasciandosi alle spalle i corpi sgraziati e macchiati dalla pioggia e dal sangue di due gemelline che ancora stringono i lecca-lecca in mano, le sirene della polizia strillano ma non per loro, è un giorno da cani e c’è molto da fare.

La benzina io la metto alla sera, quando torno dal lavoro, la metto da sola anche se d’inverno fa freddo e mi sporco le mani. Però l’odore che da bambina non facevo altro che aspettare ogni volta che uscivamo in macchina non mi stupisce più, non lo avverto neanche. Guardo lontano, il quartiere dove abito, si vede il mio palazzo, le luci accese a quasi ogni piano. Non so se è come dicono, che il cemento che avanza ha distrutto il paesaggio di un tempo, ma certo lo sguardo è sempre in prigione, senza possibilità di evadere se non volgendosi al cielo, non riesco più a pensare al futuro, ai miei spazi, sono finite le possibilità di immaginarsi i cambiamenti, vedo muri che stringono il cerchio, che tolgono il respiro. Non c’è spazio neanche per camminare, si cammina in macchina, a passo d’uomo con tubi di scarico come valvole di sfogo. La radio è meravigliosa, se non ci fosse la radio nel traffico ci sarebbero continue stragi, la gente comincerebbe a girare armata in attesa di una freccia non messa, di una macchina che si spegne, di un clacson stridulo e impertinente. Eppure arrivo tutti i giorni puntuale al lavoro, nel mio studio dai colori tenui e accoglienti con la musica da camera diffusa a basso volume, dove trascorro la vita ad ascoltare gli altri mentre penso a cosa aggiungere prima che il tempo sia scaduto e tocchi al prossimo.

M. prima di cominciare a parlare respira con ritmi irregolari e sembra prendere la rincorsa, poi è un fiume in piena di parole, fino a che si ferma di colpo, prende una grossa boccata d’aria che sembra che ricominci o che voglia chiudere con qualcosa di grosso e invece si spegne, guarda basso e produce un piccolo sospiro.

Capisce! La mia cacca, la mia cacca stava tutta nei pantaloni, era fredda, fredda! Era cacca morta. Non puzzava, però era fredda. E allora Napoleone doveva sentirsi solo in quell’isola lontana, così solo, e intanto la cacca mi faceva venire i brividi e la maestra mi guardava perplessa, mi diceva continua che stai andando bene, ma io mi sentivo come Napoleone, solo e in imbarazzo, ce la siamo fatta sotto tutti e due, poi ho chiesto di andare in bagno, la maestra mi ha risposto prima finisci, io ho detto non posso, poi ho detto sono Napoleone esigo di essere lasciato libero di andare in bagno, e tutti a ridere i miei compagni, la maestra si è spaventata perché io l’ho detto con una voce strana, una vocina come un diavoletto, stridula mi ha detto che si dice la maestra, che le ha fatto venire i brividi, perché anche i miei occhi erano diversi quando gliel’ho detto. E allora la maestra non riusciva a dire nulla e tremava e io che non ce la facevo più ho cominciato a mettermi le mani nelle mutande e a tirare fuori dei pezzettini di cacca, che un po’ era liquida e un po’ era solida, ma non puzzava, e allora i compagni tutti a ridere come matti, qualcuno strillava, qualcuno c’aveva proprio lo schifo dipinto in faccia, però io non riuscivo a togliermi tutta la cacca di dosso e allora mi sono abbassato i pantaloni e pure le mutande per fare meglio e sono rimasto con il pisello di fuori che era diventato tutto marrone e c’aveva la pelle raggrinzita perché poi mi hanno detto che quando i maschi sentono il freddo gli fa così il coso loro.



Prendo appunti, scarabocchi, farfalline e cuoricini. M. fa un lavoro molto semplice: è impiegato alle poste italiane, accoglie chi arriva all’ingresso e fornisce le prime indicazioni, preme i pulsanti della macchinetta che stampa i numeri per le file, tre pulsanti per le diverse operazioni.
Vive in periferia, una casetta con poche stanze ereditata dai suoi genitori; vive con un gatto, un gatto bianco e grasso, nella foto che mi fece vedere si capiva chiaramente; ha 41 anni. È brutto, non ci sono molte parole per farlo capire ed è anche spiacevole doverlo dire, perché sembra avercele tutte; è solo e brutto, ha una collezione di giornate tutte uguali divise per luoghi in cui ha trascorso la sua esistenza, la casa quando erano vivi i suoi genitori, la scuola elementare, la scuola media, il lavoro alle poste, la sua casa adesso. Per campare non gli manca nulla, può arrivare dritto alla morte senza intoppi, e più lo ascolto più mi sembra che non dovrebbe essere qui a raccontarmi le sue vicende, a farsi leggere i suoi sentimenti, a farsi cavare fuori da sé quello che tiene nascosto, quello che sarebbe stato se non fosse nato e cresciuto in mezzo alla sfortuna.

Ancora il vecchio dell’altro giorno. Ha un foglietto in mano. È una multa. Mi chiede perché gliel’abbiano fatta. Sulle prime non lo capisco nemmeno io. Poi capisco che ha parcheggiato troppo vicino alla carreggiata. Ci parcheggiano tutti. È toccata a lui stavolta. Gli chiedo se ricorda della rapina, delle bambine uccise. Niente, non capisce, pensa solo alla multa, a come fare per il reclamo. Lo accompagno al bar. Gli chiedo se ha i soldi per pagare la multa. Dice di sì, per fortuna ha la pensione. Ne ha due. Gli arrivano ancora i soldi dalla Francia, in cui visse per 10 anni appena dopo la fine della seconda guerra mondiale. È sposato, ha quattro figli, tre sono donne.

Eccoli qua, gli uomini che incontro.


sabato 6 ottobre 2012

500?









Charles Bukowski – Con i soldi

C’è questo fantino superstar che è stato preso da
per la parola scritta e una sera
a casa mia mi ha chiesto
“senti c’è niente che posso leggere?” gli ho risposto:
“be’, c’è un tale Céline, ha scritto un libro intitolato
Viaggio al termine della notte”.

un paio di sere dopo
mi ha telefonato.
“senti, non riesco a trovare quel libro in nessuna libreria”;
così gli ho detto dove poteva trovare
Céline.
un giorno l’ho incontrato all’ippodromo e gli ho chiesto:
“hai trovato quel libro o no?”
e lui ha detto: “certo”.
ogni volta che l’ho incontrato all’ippodromo dopo quella volta
gli chiedevo:
“hai letto quel libro o no?”
“no”, mi rispondeva.

l’ultima volta mi ha detto: “non mi ha preso”.
troppo lento”.
“cosa?”, ho detto io.
“eh sì”, ha risposto. “ho passato il libro a mia moglie”.
“ben fatto”, ho detto. “e allora?”
“ha detto che è deprimente”.

ho fatto la mia giocata e poi sono tornato in auto a casa, e pensavo:
non è possibile che stia parlando di Céline, non il Céline che ho letto io

quella piovosa sera invernale
così tanti anni fa
dopo una lunga giornata alla Compagnia Elettrica Acme passata
a imballare lampadari
in casse di legno.
leggendo Céline per la prima volta là in
camera mia
mi sono messo a ridere forte a quella folle verità
mi sono messo a saltare sul letto
mi sono messo a pancia sotto picchiando il materasso
con il pugno, pensando: nessuno è capace di scrivere
così, questo è il principio e la fine e la parte di
mezzo di tutto
quanto!

lo vedo ancora quel fantino all’ippodromo
di tanto in tanto, è una
pasta d’uomo, ma
davvero non è più lo stesso per
me.
parliamo soltanto dei
cavalli e la finiamo
lì.

( mai letto Céline )

Messa da parte la nostalgia, cosa resta? Origin of  symmetry, 16 anni – quante pose, quante possibilità di non pensare al futuro e pure di vedersi ovunque – 16 anni, non mi ricordo più. Forse era l’estate dei baci dati un po’ per caso un po’ per forza – o quella sarebbe venuta dopo – forse era già iniziato il mio personale Medio Evo ( senza splatter e allucinazioni ). Forse era solo un bel disco, per quel che ne capivo. Soprattutto era un disco vissuto, risuonato, era il credere che le cose fossero là dentro, incise in quel dischetto di plastica, che i Muse ( ma per ognuno valgano i propri ) fossero uno dei centri del mondo. E per molti lo sono ancora. Riascoltarli oggi, in cuffia, 11 anni dopo, è un’altra cosa. Che dire? I Muse prima erano un suono ben preciso, erano reminiscenze romantiche, erano ambiziosi nel far sembrare travolgente quello che era scarno, erano sull’orlo della caduta rovinosa. Erano un film a basso costo girato con talento immenso. Oggi sono un kolossal che rimescola pezzi di rock vario, sono un’onda d’urto con la musica alle spalle. Per un fatto di poco conto non fanno più parte di me, non mi hanno tradito loro, li ho lasciati io, e senza dire niente. Non si torna indietro, come in fondo si trae dal titolo del loro ultimo album, The 2nd law. Sul web ne ho lette di recensioni, grossomodo si dividono a metà fra positive e negative, e dopo tre ascolti, in cuffia e tutti in una notte ne scrivo qualcosa.

LE PORCATE: Supremacy – ingredienti: Led Zeppelin, James Bond, Morricone.
Survival ( meno il preludio: ma perché Bellamy non scrive una bella sinfonia o un concerto per piano e orchestra? ) – ingredienti: Queen, impeto sproporzionato, cori da duello all’ultimo sangue.
Explorers – ingredienti: candore e arpeggi, la neve là fuori, melodie riprese da riprese di riprese. Carrello a partire dal tenero abbraccio, stacco sul bambino sorridente, titoli di coda.

LA TENTATRICE: Madness – ingredienti: non lo so. Fa tanto ritorno a casa in macchina di notte ripensando alla scena di prima.

LA DANZERECCIA: Panic Station – ingredienti: Queen, funky, slap bass, ottoni, ammiccamenti vari

LA DANCERECCIA: Follow Me – ingredienti: battiti cardiaci neonatali, I Will survive, la discoteca in fa minore

LA THOM-YORKINA: Animals – ingredienti: John Frusciante meets Paranoid Android.

LA GNORRI: Big Freeze – ingredienti: la faccia tosta.

LE NOVITÀ: Save Me + Liquid State – ingredienti: canta il bassista. Beach Boys e - boh -Foo Fighters?.

LE COLONNE SONORE: Unsustainable + Isolated System – ingredienti: videogiochi, fantascienza, Philip Glass, bassi pompati, senso di fine imminente dovuta a un virus inarrestabile.







giovedì 4 ottobre 2012

IL MONDO NUOVO

Reality ( 2012 ). Regia di Matteo Garrone.
L’umanità varia e irripetibile. Ossessioni e stramberie pittoresche di massa, quella dell’apparire, dell’uscire dall’anonimato, dell’essere famosi. Lo sguardo sognante si posa sui moderni Freaks ( detto senza nessunissima voglia di giudicare, anzi, detto perché provo disagio quando mi pare di esercitare uno sguardo dall’altro in basso, con l’aria di chi pensa di un altro che è uno stupido ), che per fortuna sono talmente tanti da essere divenuti pubblico e protagonista  ( ecco, alla fine sono un potenziale fenomeno da baraccone, solo più controllato, più silenzioso, più consapevole magari ). Una fiaba senza l’atmosfera dei boschi e dei castelli, senza la magia Burtoniana, ma con i contrasti spiazzanti di una famiglia popolare ( per capirci ) che vive in un palazzo antico, si traveste per una Versailles trash ( ammesso che una volta non lo fosse ) e si strucca compostamente prima di andare a dormire. Peccato che l’ideuzza di andare in tv si insinui nel protagonista e lo travolga pian piano fino a fargli perdere ogni contatto con la realtà ormai sfuocata per sempre e fino a lasciarlo disteso e ridente. E poi Gaetano ( Troisi ), la sua timidezza o presunzione, i suoi tic. Non solo battute memorabili, ma una piccola indagine sui comportamenti, sul lasciarsi andare, sul bisogno di parlare, sulla gelosia. 



venerdì 28 settembre 2012

LE PAROLE NEL DISTACCO




 
Viaggiare insieme. Fare dei figli. Non rinunciare alla possibilità di trasmissione di esistenze legate ad un filo d’amore, quando va bene. Invece ti lascio insieme ai ricordi del nostro tempo. Io ho fallito perché non ho più creduto a noi, e a te. Ti lascio per sempre, e sarà così rapida questa notizia che ti attraverserà come una fitta, almeno spero, e ti abbandonerà subito, lasciandoti un piccolo vuoto. Dolore e sconforto potrai metterceli e non pensarci più. Ti auguro di fare così e di non soffrire per me, non sentirti in colpa se non vuoi stare male, è la cosa più giusta da fare. Nella terra dove andrò a morire il nostro distacco avverrebbe serenamente, e dato che già distanti lo siamo non angustiarti, io sono già morto, è successo, tu stavi leggendo ed io già non c’ero.


Lei è lontana qualche passo, è china a raccogliere dei fiorellini e il vento le smuove il vestito leggero che diventa un insieme di piccole onde e le vorrei scattare una foto ma ho dimenticato la macchinetta in albergo. Mi giro e l’oceano mi sorprende di nuovo, per un attimo ho paura e poi mi ci abituo, ma quando torno ad osservarlo è sempre troppo grande, immenso, lo guardo e cerco un punto che non c’è, non c’è mai, troppo. Io sono stanco e abbiamo fame tutti e due, ma dobbiamo aspettare mezz’ora prima che la corriera riparta per la città. Fra due ore avremo tutto a disposizione, l’albergo e i ristoranti, le passeggiate fra i turisti, l’odore di patatine fritte e pesce fritto e qualsiasi altra cosa che s’avvicini al naso, ma adesso siamo fermi e allo stesso tempo siamo finalmente stranieri in terra straniera, affamati e ansiosi di arrivare, di avere ristoro e compassione, finalmente.
Intorno c’è solo oceano e scogliere, uno spiazzo per i pullman, il chiosco per i turisti, in pietra bianca, gelido all’interno per l’aria condizionata, pieno di statuine, cartoline e altre cose che non distinguo, che non riesco a guardare a lungo, che mi sembrano insignificanti, ma non so neanche se lo sono effettivamente. Come l’attesa e la noia, non so più se mi piacciono o se le detesto, io che mi sforzo di non fare il turista caprone che calpesta il mondo e lo sradica ingordo, e ci pianta la sua bandierina e la osserva tronfio, io che so o sapevo godere mentre aspettavo, la nave, le scalette, le file, gli scorci di paesaggio, i vicoli scarni, i panni stesi fuori. Allora ripenso ai viaggi che abbiamo fatto, io e Lei, ma questi momenti non ci sono, ho solo i bei ricordi, le cartoline mentali che ci siamo spediti a futura memoria e gioia, gli spruzzi d’acqua e le orme nel deserto, i tuffi dagli scogli e i pesci colorati. Cieli, cieli d’ovunque, stellati, tersi, minacciosi, infuocati e spenti, stelle cadenti, desideri espressi mentre le labbra esaudivano.

-         Mi reggi la borsa?
-        
-         Oi, mi reggi questa?
-         Che?
-         La borsa, me la reggi?
-         Ah, si scusa.

-         a che pensavi?

-         A niente.

-         Però sembravi così preso.

-         In effetti, qualcosa c’era, ma mi sfugge, non so se è una cosa cui penso o se penso a quello che sto pensando.

-         Basta che non cadi di sotto, Einstein!

No, non cado, anche se è un’idea, sarebbe ottima, se ci si potesse tuffare senza farsi male, così, da un centinaio di metri, verso il mare di sotto, liberi da tutto. Se fosse possibile assaporare le sensazioni mentre si è in caduta libera. Ma non ci credo, mi sembra troppo veloce, dovrei provare il paracadutismo, me lo dico sempre, ma poi me lo dimentico. Ma come fa! È lì che sorride e mi guarda, mi prende in giro perché dico delle scemenze incredibili e mi sopporta, è felice, stanca come me ma è felice, sa ancora aspettare e apprezzare questi momenti di nulla estasiante, di polvere calda e accogliente, di sguardi fra persone di lingue diverse che si passano accanto a voce bassa e con discrezione, tutti ad osservare questo punto estremo d’Europa, a trattenere il fiato mentre ci si avvicina a piccoli passi sul bordo della scogliera, dove non c’è neanche un appoggio per le mani, per sporgersi in avanti senza rischiare di cadere. Oppure dovrebbe fingere, ma fingere con una maestria che non è concepibile se non si vuole pensar male ad ogni costo, gli occhi non dovrebbero mentire, i ciuffi di capelli che il vento fa frusciare, le ciocche che si attaccano agli estremi della bocca, tutto sta a dimostrare la sua felicità. Ci credo, le credo, maledetto io che non sono più capace, ho dimenticato le basi, ho buttato la mappa nel fuoco, ho smarrito il senso dell’orientamento vitale, non mi sento più nessun vestito comodo addosso, nessun colore è giusto, nessuna misura: troppo stretto, troppo largo, fa difetto, è pesante. Lo specchio, lo specchio. Io non mi specchio più, mi guardo di sfuggita per non trovare difetti, alito sulla superficie vitrea per creare confusione, cerco di uscire dal bagno prima possibile, lascio la mia coscienza a fare i conti con qualcun altro, che si trovi anche lei un’altra coscienza. Scappo al lavoro, corro in ufficio, chiunque incontro devo sembrare in perenne fretta, è tardi, è sempre tardi per tutto. Lei resta ancora salda affianco a me e sembra non soffrire, io quasi ci provo ad esasperarla, faccio dei tentativi che vanno sempre a vuoto, come se lei sapesse, o come, ed è quello che temo, che lei sia troppo lontana dalla mia inadeguatezza per accorgersi. Lei è rimasta umana mentre vive, io mi sono trasformato in cavia da laboratorio e scienziato pazzo allo stesso tempo, mi osservo e mi costringo, analizzo sadicamente e mi premio, tutto da solo, vicino alla follia, se fosse facile accorgersi di essere pazzo, ma non lo è.


-         Dai alzati, che stiamo per partire, mannaggia che ti sei dimenticato la macchina fotografica, guarda che bello, dammi un bacio almeno, mettiamoci in posa per la natura, facciamo che lassù qualcuno ci sta guardando per decidere se sbarcare sulla Terra e ci vede e capisce che si deve sbrigare che sennò finisce lo spettacolo.


Guardare il mondo da un aereo mi rilassa, il sottofondo del motore e il brusio quasi inavvertito degli altri passeggeri mi cullano e mi rassicurano. La perfezione sarebbe poter stendere le gambe, addirittura sdraiarsi ed aspettare l’arrivo. Un aereo trasparente. Appena scesi il pensiero che sia finita qui mi coglie e sento che non mi lascerà più. Il disfacimento è completo, il mio unico obiettivo è non vedere che vuoto intorno a me, è non sentire altro che il mio respiro, e se possibile il mio battito cardiaco. Il mio lento morire dovrebbe avvenire al freddo, mi immagino che cammino nella neve, magari nella tormenta, sono un esploratore del suicidio, uno dei più bravi, e dunque non lascerò che la mia traccia, immobile e ghiacciata, e chissà se sarà ritrovata. Sento già freddo mentre sistemo le valigie e le borse nel taxi, mentre osservo il tassametro e le luci della città in piena notte a Roma e quando la guardo, vedo che anche Lei ha abbassato le difese e sta sognando di essere altrove. Poverina, c’è ancora da andare a prendere il treno, poi tre o quattro ore e ancora salire nella nostra macchina e arrivare a casa che sarà giorno e stenderci lungo qualsiasi cosa che sia morbida e grande abbastanza da contenerci. Senza contare la mia decisione.



Quand’è che sono diventato quello che sono.

Nella sala da concerto l’attesa sta diventando snervante, è passata già mezz’ora e l’orchestra ancora non è entrata, la campanella ha già suonato tre volte nell’indifferenza generale, si è mescolata al brusio compiaciuto, agli smoking e agli abiti da sera, ai gioielli e ai cellulari che non si spengono più, ai loro display che vivono di luce propria, tanti fuochi fatui a illuderci e a infonderci sicurezza.
Come al solito non so niente di quello che andremo a sentire, sono anni che l’accompagno a questi eventi, anni che mi annoio e mi sforzo di apprezzare, senza risultati: io questa musica non la sopporto, che sia classica, rinascimentale, barocca, contemporanea, dodecafonica atonale seriale spettrale non fa differenza, e non lo so il motivo, non la capisco, non mi entra nella testa, non è per me, che sia un’orchestra o un pianoforte solo, provo uno strazio di cui a volte mi vergogno ma che è puntuale al gesto del direttore d’orchestra che inizia a muovere la sua bacchetta, parte la musica e parte l’incantesimo contro di me, obbligato alla poltrona ad essere trafitto da ogni movimento d’arco o fiato emesso, come se ogni musicista fosse d’accordo sulla mia punizione, come un plotone d’esecuzione. E poi arriva anche Sergio, uno degli ultimi amici che mi è rimasto, sempre in ritardo, con l’aria trafelata di chi ha appena fatto chissà cosa, comunque molto più importante di un appuntamento o di una serata fuori, ti può spingere ad un disprezzo tale da volerlo morto, si butta sopra il suo posto e mi abbraccia con uno slancio che mi infastidisce all’istante, poi saluta Lei dandomi una gomitata sul costato e strusciando  i suoi capelli che sanno di fumo contro la mia faccia. Non resisto, mi alzo e dico di dover andare in bagno, non chiedo neanche scusa a quelli che faccio alzare per uscire dalla mia fila, ma poi non mi dirigo dove ho detto, esco dal teatro, non mi importa che stia piovendo ancora più forte di quando siamo entrati, comincio a camminare come se fossi sicuro della mia destinazione e invece vado a casaccio, giro per vicoli che non conosco e metto i piedi ormai fradici in ogni pozzanghera che incontro, sento di essere ormai zuppo dalla testa ai piedi e trovo finalmente un bar in cui entrare. L’ingresso è da straniero che irrompe nel saloon in una notte da lupi, senza però spolverino fradicio e soprattutto senza pistole e cinturone, ad aver paura e imbarazzo sono io, pure se nel locale sono praticamente solo. C’è il barista, c’è un televisore accesso alla sua destra in alto e ci sono due clienti, vecchi, che guardano una partita di calcio, finalmente qualcosa che mi piace. Chiedo se fanno anche da mangiare, l’uomo dietro al bancone fa un cenno con la testa verso le pizzette e i panini esposti. Mi dice che sono freddi, dico che non importa, che me ne dia un paio, tonno e pomodori, e prosciutto e mozzarella, e poi una birra. La birra me la devo prendere da solo mi dice, la macchinetta che la mesce non funziona, mi dà l’apribottiglie e mi indica il frigo che sta affianco all’entrata. La prendo e pago, mi siedo al tavolo accanto a quello dei due vecchi, dopo cinque minuti che mastico capisco che è un’altra partita del cazzo di questo campionato di merda, piacevolmente sorpreso di questi miei pensieri volgari, sono in ottima compagnia tra l’altro, uno dei due vecchietti ripete a ogni fischio dell’arbitro: “’sto cornuto!”, l’altro invece sta zitto, ma riesco a sentire ugualmente un fischio, un sibilo, qualcosa che gli esce dalla bocca, qualcosa che lo rende pietoso e inutile. Poi di birre me ne scolo altre quattro, tutte prima che la partita finisca, e mi rimetto in strada con le idee confuse e un’ansia mista al rigurgito della cena. Quando sono a casa, La trovo addormentata in salotto, in una posizione sicuramente scomoda mezza distesa sul divano, con una coperta che le è già scivolata via e le lascia le gambe a prendere freddo. Mi avvicino e il suo trucco, sempre leggero,  è chiaramente colato lungo le guance attraverso le sue lacrime, io mi siedo per terra, appoggio la mia testa un poco sotto la sua, mi sento un verme, adesso sono io a piangere e a macchiare la pelle del divano con le mie lacrime indegne, false, escono per inerzia, scacciate dal mio corpo che vuole restare vuoto, assente.

Non mi ritrovo in questo, non cerco spiegazioni e non voglio spiegarmelo, il mio gesto non ha bisogno di nessuno, di niente. Quello che mi resta da fare è andarmene perché sono questo, ho esaurito le riserve di energia, o le ho smarrite, non importa, e non sto cercando neanche altro, non sto andando in cerca del mistero, dell’autentico o dell’aldilà, mi rimane solo un’idea di futuro ed è quella di finirla al più presto, da solo e senza possibilità di essere trovato, di essere disturbato, sento quest’estraneità sulla pelle, mi sento di troppo. E certo che la mia solitudine è straziante e mi appassisco e sono pieno di dubbi, chi è che se ne va con il sorriso in faccia?
Ma non è solo avendo a che fare con dei fallimenti che si perde la voglia di vivere, che siano fallimenti materiali o dettati dalla vergogna, dalla mancanza di autostima, da una fragilità interiore che vediamo fare a pezzi dagli sguardi degli altri, anche se nessuno ci ha mai rimproverato di non essere adeguati, non è solo da questo che nasce un’idea del genere. E non nasce all’improvviso, non lo ritrovo il momento che mi ha guastato, il fatto che mi ha spinto verso un’altra direzione.








Sono in un treno, il vagone che mi ospita è vuoto, mi assomiglia, ha una parte viva all’interno eppure non conta. L’incedere del treno è lento, pare che stia salendo, dai finestrini scorgo un immenso bianco disturbato dai tralicci dell’elettricità e da qualche volo isolato d’uccello. Allora mi spingo meglio fino a schiacciare il viso contro il vetro per cercare un particolare, uno qualsiasi su cui fissare lo sguardo, approfittare di questa lentezza per ritrovare un tratto familiare, una testimonianza d’umanità, una costruzione abbandonata. Adesso che sono abbastanza lontano da tutto, adesso che avverto uno spazio rassicurante posso accettare la nostalgia di ieri, sono sicuro che quando scenderò da qui le gambe non mi cederanno.

Così avanzo, senza perdere tempo, muovo i miei passi in un ambiente inaspettatamente calmo, la neve mi ostacola ma non mi trattiene, sono stanco e sbuffo, così poco abituato a muovermi all’aperto da non ricordarmi l’ultima uscita, ed è l’unico rimpianto, che mi sono sempre mosso poco, il meno possibile, ho sempre preferito un qualsiasi mezzo di trasporto alle mie gambe,  però avanzo. Alzo lo sguardo per controllare la via, ma è inutile in effetti, non c’è nulla contro cui andare a sbattere e la strada non finisce, mi asciugo il sudore che ho sulla fronte e finisco per  perdere l’equilibrio di fronte a tale vastità, colori indefiniti, tra il bianco e il grigio; la fatica aumenta, il suono prodotto dal mio incedere e il cuore che si ostina ad aumentare la sua corsa, ho dolore alle orecchie e in bocca avverto uno sgradevole sapore di sangue, i miei denti adesso sono di troppo. Il livello della neve è aumentato e non me ne sono accorto, ormai sprofondo quasi fino alla vita, mi posso fermare, mi lascio cadere in avanti e affondo le braccia e la testa, urlo per il ghiaccio che passa attraverso i miei abiti lungo il collo e la schiena, urlo dapprima mentre sono ancora immerso e poi urlo al cielo, urlo fino a che la gola non chiede riposo. Respiro e piango, ansimo per tutto, la fatica e il dolore, cos’è che mi lascio dietro? Quanti pensieri che s’azzuffano, ognuno a reclamare attenzione, ma sono troppe le cose che uno abbandona, sono così tante che le lacrime non bastano a piangerle tutte, e poi infine le persone a me care, quanto sangue dovrebbe uscirmi adesso, quanta neve dovrei macchiare per provare ciò che sto perdendo, e non lo voglio ammettere, e non lo avrei ammesso di fronte a nessuno, ma mi mancano, non lo sa nessuno, non lo può sapere questa neve, non lo potrà diffondere questo vento che mi schiaffeggia, è tale la distanza che le mie urla adesso non arrivano più da nessuna parte, la mia voce ha perso ogni suo senso, è sola con me a rispondermi e a urlarmi contro. La distanza è  pari alla misura che era colma, ma se le metto a confronto non c’è dubbio che la prima fa più male, dalla prima non guarirò più e adesso me accorgo, ho ancora tempo per pensarci e per far crescere la disperazione, mi rimane tempo spero per impazzire, per dare sfogo a questo lamento che sta salendo, il mio spirito devastato in preda all’isteria e le mie membra congelate, che si preparano all’assideramento, finalmente alla mia morte, avverto il contatto tra la mia pelle e il mondo, tolgo ogni oggetto inutile, ogni vestito che mi separa dal resto e mi preparo. Non sono in grado di andare oltre, mentre tremo non mi viene più nulla, quand’è che finisce? Quanto manca, quanti istanti di sofferenza mi separano dall’andare a fondo, dal poggiarmi a terra  ricoperto di neve nel mio letto nuovo, calmo e immobile, immenso e tutto per me, disponibile ad accarezzarmi, a farmi sentire protetto e in salvo, a casa.

giovedì 20 settembre 2012

IL MONDO NUOVO ( finalmente il 3D )








Pur non essendo un amante del genere fanta-qualsiasi cosa è innegabile che vedersi sparare negli occhi ( negli occhialetti ) scenari maestosi e figure definite al dettaglio dona all’esperienza cinematografica un certo piacere. È uno spettacolo. Poi se lo confronto con Alien, appena rivisto, vince nettamente Alien, vince il 1979. E vince perché non doveva dimostrare nulla e non doveva piacere per forza, per cui ogni scena o dialogo sono essenziali al film, nessun ammiccamento, nessuna battuta scontata, siparietti ridotti all’osso. Tensione massima grazie a spazi ristretti e pochissima luce. Inquietudine per l’elemento estraneo che si insinua nel corpo per far nascere un essere perfetto e immorale. Prometheus ha ambizioni maggiori, anche in termini narrativi, per questo disperde alla lunga il potenziale. È un po’ come se Alien fosse un racconto e Prometheus e i suoi eventuali seguiti un romanzo. Dentro c’è l’origine della vita umana, la presunta differenza tra chi crede e chi è razionalista ( detto alla grossa e mostrato nel film in maniera banale purtroppo ), e c’era bisogno di un lavoro di scrittura più sostanzioso, più raffinato. Ma non si può avere tutto, e comunque si esce dalla sala con la voglia di spiegarsi alcune cose, di parlarne.

giovedì 13 settembre 2012

Non può piovere per sempre

Un'altra sorpresa dal mondo delle biblioteche. Nel saggio di Edmund Wilson, La ferita e l'arco, ho trovato un bigliettino piacevolissimo con su scritto: "Anche se non ti va... pensa che io ti dico: AMORE TI AMO SBRIGATI A FINIRE DI STUDIARE VOGLIO SPOSARTI IL PRIMA POSSIBILE ( voglio essere TUA ).

E poi da L'anima non è una fucina, contenuto in Oblio di DFW: "...e la folata di aria esterna che portava con sé era fredda, e sapeva di foglie bruciate e dell'odore triste che hanno le strade al crepuscolo, quando tutte le case diventano dello stesso colore e tutte le luci sulle verande si accendono come baluardi contro qualcosa che non ha nome".